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Ripresa economica, conflitti sociali e scandali politici in India

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* Desidero ringraziare Elisabetta Basile per le critiche da essa fatte alla prima stesura di questo scritto e per i consigli che mi ha dato. Come sempre, sono risultati preziosi.

1. Premessa

Nel corso del 2010, l’India è comparsa sulle pagine della stampa internazionale soprattutto in concomitanza con due avvenimenti: i Commonwealth Games che si sono tenuti a Delhi in ottobre e, subito dopo, la tappa in India del presidente americano Barack Obama, in occasione del suo viaggio in Asia. Mentre la preparazione dei Giochi del Commmonwealth ha gettato un’ombra sulla capacità dell’India di far fronte con successo a impegni importanti, la visita di Obama (6-8 novembre 2010), seguita ai Commonwealth Games di circa un mese, è stato il momento in cui l’India ha visto il pubblico riconoscimento, ad opera del presidente della superpotenza americana, dell’ormai avvenuto passaggio dallo status di «potenza emergente» a quello di «potenza emersa» [Ogden 2010].

In definitiva, però, né l’uno né l’altro avvenimento possono essere presi come esemplificativi dell’evoluzione dell’India nel corso dell’anno sotto esame. Essi, se mai, sono un riflesso di quello che, nel corso del 2010, ne è stato il motivo di fondo. Questo, a sua volta, ha due aspetti complementari: il primo rappresentato dallo straordinario rimbalzo dell’economia indiana, dopo le difficoltà legate alla crisi economica mondiale; il secondo dal fatto che tale rimbalzo, se dà una motivazione concreta al positivo giudizio pubblicamente enunciato da Obama, poco sta facendo per risolvere i mille problemi sociali ed economici che continuano a caratterizzare la situazione del paese.

È in base alle considerazioni appena fatte che il presente scritto partirà dall’esame della sorprendente ripresa economica dell’India, per poi proseguire con l’analisi di due dei più importanti fra i molteplici problemi politici e sociali che il paese continua a dover affrontare: la crescita di pericolosità dell’insurrezione maoista, ormai estesa a vasti tratti del paese, e i giganteschi scandali economici venuti alla luce nella seconda metà dell’anno. Si tratta di due problemi che, nella loro diversità, rappresentano uno specchio accurato delle limitazioni di fondo che caratterizzano la democrazia e il capitalismo indiani.

Ciò detto, è bene sottolineare che la scelta appena enunciata ci costringe a lasciare da parte – non perché siano irrilevanti, ma, semplicemente, per ragioni di spazio – una serie di altri problemi che sono emersi o, in certi casi, riemersi durante l’anno sotto esame. Un’elencazione sia pure non esaustiva di tali problemi include la continua repressione in Kashmir, l’approvazione da parte della Rajya Sabha (9 marzo 2010) del Women Reservation Bill, che assegna all’elemento femminile un terzo dei seggi in parlamento (ma che, in ogni caso, prima di essere definitivamente perfezionato dovrà essere approvato anche dalla Lok Sabha e «attraversare l’acquitrino della politica a livello degli stati», impiegando un minimo di altri due anni [W/AT 17 marzo 2010, «The politics of empowerment in India»]), la costante battaglia a favore o contro la libertà di parola e quella a favore o contro il laicismo, e, da ultimo, ma non per importanza, la questione rappresentata dalla crescente rilevanza politica delle caste. Quest’ultimo è un problema che è riemerso con forza nel corso dell’anno sotto esame, soprattutto in occasione del nuovo rilevamento censitario e della sofferta e criticata decisione del governo di includere fra i criteri di rilevazione anche l’appartenenza castale [ad es. W/BBC 12 agosto 2010, «India approves caste-based census»]. In realtà, il problema se includere o meno la categoria dell’appartenenza castale nella rilevazione censitaria ha diviso non solo il governo, ma anche il maggior partito dell’opposizione, il BJP (Bharatiya Janata Party), suscitando un vivace dibattito fra politici ed intellettuali. Tale dibattito ha oscillato fra due posizioni estreme: (a) l’opportunità di prendere atto di una situazione di fatto, cioè dell’importanza politica e del peso socio-economico delle singole caste; (b) l’inopportunità di rafforzare il peso politico delle caste, dando ad esso una sorta di sanzione ufficiale attraverso la catalogazione, da parte dello stato, dei membri di ciascuna casta.

Si tratta, come si vede, di problemi che sono tutti importanti. Come tali sono destinati a riemergere con forza nel corso del prossimo futuro. E sarà in quell’occasione che saranno ripresi e trattati da «Asia Maior».

2. La ripresa economica

Dopo un triennio – dal 2005-06 al 2007-08 – in cui il tasso di crescita del PNL (Prodotto Nazionale Lordo) indiano si era mantenuto costantemente fra il 9 e il 10%, l’anno fiscale 2008-09 aveva visto una cospicua contrazione del tasso di crescita, ridottosi al 6,7% [W/ES 2010, tab. 1.1]. Se pure, rispetto a quelli delle economie occidentali, duramente colpite dalla crisi mondiale, il tasso di crescita indiano era straordinario, esso era tale da destare le più vive preoccupazioni nell’opinione pubblica e nella classe politica indiane, in particolare fra le forze al governo. Il secondo governo dell’UPA (United Progressive Alliance), uscito dalle elezioni generali del 2009, si era quindi impegnato a fondo nel tentativo di far fronte al rallentamento dell’economia, attraverso una serie complessa di provvedimenti, incorporati soprattutto nella legge di bilancio per il 2009-10. In quell’occasione, il ministro dell’Economia, Pranab Mukherjee, nel suo discorso di presentazione del bilancio alla Lok Sabha (Camera bassa) del 6 luglio 2009, aveva indicato tre obiettivi chiave, perseguiti dalla legge: riportare il tasso di crescita del PNL al 9%; realizzare una crescita che non emarginasse gli strati sociali più deboli; potenziare la capacità operativa della macchina statale, migliorandone i meccanismi [AM 2009, p. 100].

Già alla chiusura dell’anno solare 2009, era diventato chiaro che si stavano facendo cospicui progressi nel raggiungimento del primo degli obiettivi indicati (il rilancio, cioè, della crescita economica). Il 29 dicembre, infatti, il presidente del PMEAC (Prime Minister’s Economic Advisory Council), C. Rangarajan, dichiarava, fiducioso, che, nonostante una serie di problemi, fra cui, in particolare, il cattivo andamento dell’agricoltura, l’economia era cresciuta del 7,9% nel secondo trimestre dell’anno fiscale 2009-10, ciò che permetteva d’ipotizzare un tasso di crescita complessivo annuale fra il 7 e il 7,5%.

L’analisi di Rangarajan trovava un’autorevole conferma nell’Economic Survey 2009-10, resa pubblica il 25 febbraio 2010. Secondo il documento in questione, «la vera svolta» si era verificata appunto nel secondo trimestre del 2009-10, quando l’economia – come correttamente indicato da Rangarajan – era cresciuta del 7,9%. «Secondo le stime preliminari del PNL per il 2009-10, rilasciate dalla Central Statistical Organisation – ricordava l’Economic Survey -, ci si aspetta che l’economia cresca al 7,2% nel 2009-10, con il settore industriale e quello dei servizi in crescita all’8,2 e all’8,7% rispettivamente» [W/ES 2010, § 1.2].

Si trattava di una ripresa che, come notato dall’Economic Survey, era degna di nota (impressive) «per almeno tre ragioni». La prima era che essa si era verificata «nonostante un declino dello 0,2% della produzione agricola, […] conseguenza di monsoni al di sotto della norma». La seconda ragione era «il rinnovato ritmo di crescita del settore manifatturiero», un settore che aveva visto un «continuo declino nel tasso di crescita per quasi otto trimestri a partire dal 2007- 08», ma che, nel 2009-10, era più che raddoppiato, passando dal 3,2% del 2008-09 all’8,9% del 2009-10. Infine, il terzo elemento che rendeva degna di nota la ripresa registrata nel 2009-10 era, dopo il significativo declino verificatosi nel 2008-09, la risalita del tasso di crescita nella formazione di capitale fisso lordo [W/ES 2010, § 1.2].

Sempre secondo l’Economic Survey, a rendere degna di nota la ripresa del tasso di crescita del PNL nel 2009-10 era che si appoggiasse su una base ampia, come dimostrato dal fatto che: «Sette su otto settori/sotto-settori hanno un tasso di crescita pari o superiore al 6,5%». L’eccezione rimaneva «l’agricoltura e settori affini, dove si stima che il tasso di crescita durante il 2008-09 sia pari a meno 0,2%» [W/ES 2010, § 1.8].

Il positivo andamento dell’economia, registrato al momento della presentazione dell’Economic Survey e, subito dopo, della legge di bilancio per il 2010-11 (presentata dal ministro Mukherjee alla Lok Sabha il 26 febbraio 2010), trovava conferma in una serie di stime fatte da fonti diverse nel corso dei restanti mesi dell’anno solare. Anzi, tali stime rettificavano verso l’alto le cifre indicate nell’Economic Survey e nel discorso di presentazione del bilancio. Così, alla fine di marzo, la Planning Commission, nella sua rassegna di medio termine dell’andamento dell’economia indiana nell’anno fiscale 2010-11, indicava come i probabili tassi di crescita nel 2010-11 e nel 2011-12 rispettivamente l’8 e il 9% [W/H 24 marzo 2010, «10% growth target set for 12th Plan»]. Dal canto suo, l’ADB (Asia Development Bank), il 13 aprile 2010, nel primo dei suoi due rapporti annuali per l’anno solare 2010, notava che: «Il rimbalzo dell’India dalla crisi globale è destinato ad accelerare nel 2010, con una crescita stimata all’8,2%» [W/ADB 1/2010, § 1]. A questo faceva seguito, alla fine del luglio 2010, la valutazione dell’Economic Advisory Council del primo ministro indiano, secondo cui la ripresa economica per l’anno fiscale 2010-11 si sarebbe verificata «ad un tasso dell’8,5%, più veloce del previsto» [W/Tr 24 luglio 2010, «Economy to grow at 8.5 pc: PM’s panel»]. La medesima cifra era poi indicata il 28 settembre, nel secondo rapporto annuale dell’ADB: «L’economia dell’India è destinata ad espandersi fino all’8,5% nell’anno fiscale che termina col marzo 2011» [W/ADB 2/2010, § 1]. Infine, all’inizio dell’ottobre 2010, il ragioniere generale dello stato indiano (Chief statistician), T.C.A Anant, si dichiarava ottimistico sul fatto che, alla fine dell’anno, l’economia indiana avrebbe superato le previsioni fatte dall’Economic Survey di un tasso di crescita compreso fra l’8,5 e l’8,75%. Una previsione, quest’ultima, che trovava conferma nel fatto che le stime di crescita per il primo trimestre dell’anno fiscale 2010-11 erano pari all’8,8% [W/H 4 ottobre 2010, «Indian economy to grow by over 8.5 pc»).

3. I limiti della ripresa economica

Il positivo panorama fin qui tracciato sull’andamento dell’economia indiana aveva però limiti non solo sociali (su cui torneremo più avanti), ma anche di carattere più strettamente economico. Al primo di questi limiti economici – cioè il persistente cattivo andamento dell’agricoltura – abbiamo già accennato; il secondo, invece, era rappresentato dalla presenza di un elevato tasso d’inflazione.

Si trattava, in realtà, di due fenomeni strettamente legati, dato che l’inflazione si era manifestata già nel 2009, soprattutto attraverso la crescita dei prezzi dei beni alimentari. Così, secondo l’Economic Survey, nella settimana conclusasi il 30 gennaio 2010, il tasso d’inflazione dei beni alimentari era pari al 17,9%; la situazione era poi aggravata dal fatto che anche il tasso d’inflazione per carburante, energia, luce elettrica e lubrificanti era alto, pari al 10,4%. Non stupisce che, sempre secondo l’Economic Survey, fin dal dicembre 2009 vi fossero state indicazioni che l’inflazione, trasmettendosi dai beni alimentari e dai carburanti, si stesse generalizzando.

Secondo l’Economic Survey, l’inflazione dei beni alimentari era legata al cattivo andamento dei monsoni nel corso del 2009-10. In particolare, il monsone di sud ovest del 2009 aveva comportato una diminuzione del 23% nelle precipitazioni piovose, vitali per il buon andamento dell’agricoltura. A questo aveva poi fatto seguito, nel periodo invernale, una sovrabbondanza di piogge che, in molte aree, si era tradotta in un seguito di disastrose alluvioni. Ma, naturalmente, come si è più volte ricordato nei precedenti volumi di «Asia Maior», accanto a queste cause negative contingenti, a determinare il cattivo andamento del settore primario (e, quindi, l’aumento dell’inflazione dei prezzi dei prodotti alimentari) era il ristagno complessivo dell’agricoltura. Questo, a sua volta – come, di nuovo, si è ricordato nei precedenti volumi di «Asia Maior» – era determinato dalla scarsità di investimenti in tale settore, frutto della politica neoliberista in corso dall’inizio degli anni Novanta.

A contribuire a peggiorare l’andamento dell’inflazione è poi intervenuta la crescita dei prezzi dei prodotti petroliferi. Questa è stata determinata da due provvedimenti: il primo è stato la scelta del ministro Mukherjee, scelta su cui torneremo fra poco, di reintrodurre, nella legge di bilancio per il 2009-10, una soprattassa sui prodotti petroliferi pari al 5%, portando la tassa complessiva dal 2,5% al 7,5%. Il secondo provvedimento è rappresentato dalla decisione, preannunciata da Mukherjee nel suo discorso di presentazione del bilancio ed effettivamente presa il 25 giugno dal ministro per il Petrolio e il gas metano, di eliminare i sussidi ai prezzi dei prodotti petroliferi. Si è trattato di due provvedimenti che, ovviamente, non potevano non avere effetti inflazionistici a cascata sull’intera economia.

 

In questa situazione, Rangarajan, il già ricordato presidente del PMEAC (Prime Minister’s Economic Advisory Council), nel rilasciare alla fine del luglio 2010 l’Economic Outlook 2010-11, puntualizzava come l’inflazione dei prezzi all’ingrosso avesse raggiunto in giugno quota 10,55% (nelle sue parole, «più del doppio della zona di comfort»). Si trattava di uno sviluppo che – come lo stesso Rangarajan ammetteva – era dovuto soprattutto alla crescita dei prezzi dei carburanti e dei prodotti alimentari [W/Tr 24 luglio 2010, «Economy to grow at 8.5 pc: PM’s panel»]. Nella medesima occasione, tuttavia, Rangarajan, pur auspicando l’intervento della Reserve Bank of India per controllare l’aumento dei prezzi, si dichiarava ottimista sul loro andamento. Secondo il presidente del PMEAC, infatti, il tasso d’inflazione era destinato a diminuire a partire da agosto-settembre, raggiungendo il 7-8% alla fine dell’anno solare e il 6,5% alla fine dell’anno fiscale. Una previsione giustificata da Rangarajan in base all’aspettativa di un miglioramento congiunturale della produzione agricola [W/Tr 24 luglio 2010, «Economy to grow at 8.5 pc: PM’s panel»].

In realtà, le previsioni del presidente del PMEAC si rivelavano eccessivamente ottimistiche. A settembre il tasso d’inflazione generale era pari all’8,62%, mentre a ottobre (l’ultimo mese per cui fosse disponibile tale dato al momento di chiudere questo scritto, cioè nel dicembre 2010) il tasso d’inflazione era marginalmente declinato all’8,58%. Il tasso d’inflazione dei prodotti alimentari, dal canto suo, passava dal 10,86% nella settimana che terminava il 28 agosto, al 12,3% nella settimana che terminava il 30 ottobre, al 10,15% nella settimana che terminava il 13 novembre, all’8,6% per la settimana che terminava col 20 novembre, allineandosi sostanzialmente con l’inflazione generale [W/IS]. Tuttavia, nelle settimane successive, l’inflazione dei prezzi alimentari riprendeva quota e, alla fine di dicembre, dopo un’ininterrotta crescita di 10 settimane, raggiungeva il 14,44% [W/H 31 dicembre 2010, «Inflation surges to 14,44 per cent»].

4. Le ragioni della ripresa economica

Nonostante l’ombra gettata sulla ripresa dal persistere di un elevato tasso d’inflazione, rimane il fatto che la ripresa dell’economia indiana, in corso a partire dal secondo trimestre del 2009-10, è stata a dir poco rimarchevole. A rendere possibile un tale risultato è stata la politica voluta dal governo dell’UPA e attuata dal ministro delle Finanze, Pranab Mukherjee.

Mukherjee, nella legge di bilancio del 2009-10 e in una serie di provvedimenti ad hoc che l’avevano preceduta, aveva scientemente puntato ad una politica espansiva. Questa si era articolata sia nell’aumento degli investimenti sia nel mantenimento o nell’aumento di finanziamenti a basso costo per una serie di strati sociali posti sotto pressione dalla crisi (dagli agricoltori agli studenti «provenienti dai settori [sociali] più deboli»). Tale politica aveva portato ad un aumento del 36% delle spese di bilancio contro un imponibile fiscale che era solo marginalmente superiore a quello del precedente anno finanziario [AM 2009, pp. 99-103].

La scelta in questione aveva rappresentato un rischio calcolato, «motivo di preoccupazione» per Mukherjee, in quanto necessariamente destinata a spingere verso l’alto il deficit di bilancio (previsto, sempre da Mukherjee, nell’ordine del 6,8% per il 2009-10). Tuttavia, come dimostrato dal rimbalzo dell’economia indiana, si era trattato anche di una scommessa che, al momento della presentazione dell’Economic Survey 2009 e, subito dopo, del bilancio per il 2010-11, era risultata vincente.

5. La legge di bilancio 2010-11

Il ministro Mukherjee, nel presentare la legge di bilancio per l’anno finanziario 2010-11, ha indicato le tre medesime priorità che avevano caratterizzato la legge dell’anno precedente, cioè: «ritornare rapidamente al sentiero dell’alta crescita del PNL del 9% e trovare gli strumenti per superare la «barriera della crescita a due cifre»; «imbrigliare la crescita economica […] rendendo lo sviluppo più inclusivo»; superare «le debolezze dei sistemi, delle strutture e delle istituzioni di governo ai diversi livelli della governance» [W/UB, §§ 6, 8, 9]. Accanto a questi obiettivi, e destinata a condizionarne il perseguimento, nella legge di bilancio per il 2010-11 vi era, però, la dichiarata volontà di ritornare sulla via della «prudenza fiscale», ricorrendo a «una exit strategy calibrata» dalla politica fiscale espansiva dei due anni precedenti [W/UB, § 22].

Non sorprende, quindi, che la legge di bilancio per il 2010-11 abbia segnato il ritorno ad una politica economica più coerente con l’ortodossia neoliberista rispetto a quelle dei due precedenti anni finanziari. Questa decisione ha trovato espressione in tre provvedimenti paralleli e complementari: il taglio delle spese, la diminuzione delle imposte dirette e un aumento delle imposte indirette più che proporzionale rispetto alla diminuzione delle imposte dirette. In effetti, la legge di bilancio prevedeva un aumento in termini nominali delle spese previste pari all’8,5%; ciò che, considerato il tasso d’inflazione, rappresentava appunto una riduzione in termini reali della spesa. A questo, come si è detto, si è accompagnata una serie di provvedimenti che hanno visto una diminuzione delle imposte dirette, più che compensata da un massiccio aumento di quelle indirette. Fra queste ultime vi era la già citata soprattassa del 5% sui prodotti petroliferi. A ciò si accompagnava il preannuncio, da parte del ministro Mukherjee, della prossima deregolamentazione dei prezzi dei prodotti petroliferi, un provvedimento di cui si sarebbe fatto carico il ministro dell’Energia.

L’insieme di questi provvedimenti permetteva a Mukherjee di annunciare un deficit di bilancio per il 2010-11 dell’ordine del 5,5%, comparato al 6,9% dell’anno 2009-10 [W/UB §§ 115, 116].

Con l’abilità dialettica che sembra essere una caratteristica dei ministri delle Finanze dei governi dell’UPA (prima Palaniappan Chidambaram e ora Pranab Mukherjee), il discorso di presentazione del budget 2010-11 si è soffermato con dovizia di particolari sulle spese sociali previste o promesse dal governo. Lo stesso ministro Mukherjee ha poi ricordato, sia nel discorso di presentazione del bilancio, sia in un’intervista ad un noto settimanale indiano, come le spese sociali del budget 2010-11, lungi dall’essere una proporzione trascurabile, fossero pari al 37% della spesa complessiva [W/UB § 72; W/O 15 marzo 2010, «‘Where is The Question Of Abandoning The Aam Aadmi?’»]. Vale poi anche la pena di notare – cosa che non è stata fatta né dal ministro, né, in genere, dalla stampa indiana – il positivo sviluppo rappresentato dall’interruzione del processo di crescita delle spese militari.

Per anni questa voce di spesa era stata in vertiginoso e continuo aumento sia sotto i governi dell’UPA sia sotto quelli di destra che, negli anni 1998-2004, li avevano preceduti. Alla vigilia delle elezioni del 2004, il governo di destra uscente, nel bilancio provvisorio per il 2004-05, aveva indicato un aumento delle spese militari del 9,45%; tale cifra era stata rivista verso l’alto nel bilancio definitivo, presentato dal governo dell’UPA dopo le elezioni, passando al 27%. A questi aumenti erano seguiti quello del 17,92% nel bilancio 2005-06, del 7,8% nel bilancio 2006-2007, dell’11% nel bilancio 2007-08, del 14% nel bilancio 2008-09 e del 34% nel bilancio 2009-10 [F 30 luglio 2004, p. 10; AM 2005-2006, p. 194; AM 2007, § 8.1; TSW 28 aprile 2007, pp. 10-11; W/UB 2009, § 75]. Nel bilancio 2010-11, le spese militari, invece, hanno avuto un aumento nominale così limitato (da 1.417.030 a 1.473.440 milioni di rupie) da configurarsi come una diminuzione della spesa reale [W/UB 2009 § 75; W/UB § 107].

Ciò detto, rimane il fatto che è difficile pensare al bilancio 2010- 2011 come precipuamente indirizzato a favorire l’aam aadmi (l’«uomo comune»). L’aumento della tassazione indiretta era, infatti, un provvedimento necessariamente destinato a penalizzare gli strati sociali più poveri, sia accrescendo il carico fiscale da essi pagato, sia alimentando il processo inflazionistico (in particolare con un provvedimento come la reimposizione della tassa del 5% sui prodotti petroliferi). Si tratta di una valenza politica che, ovviamente, è stata sottolineata da una serie di noti intellettuali – ad es. Amiya Kumar Bagchi, C.P. Chandrasekhar, Jayati Ghosh e Pravin Jha – che hanno criticato da sinistra la legge di bilancio. Tali critiche, però, non hanno avuto nessun effetto sul percorso intrapreso dal governo; come già ricordato, la decisione preannunciata dal ministro Mukherjee di liberalizzare i prezzi dei prodotti petroliferi è stata attuata il 25 giugno. Tale decisione è stata accompagnata da quella di porre fine alle sovvenzioni alle compagnie petrolifere, sovvenzioni che avevano fino a lì permesso di tenere artificialmente bassi i prezzi di vendita al pubblico [W/H 26 giugno 2010, «Centre hikes fuel prices»]. Ne è seguita una rapida crescita dei prezzi dei prodotti petroliferi, che si è tradotta in un’accelerazione dell’inflazione tanto rapida ed allarmante da indurre il primo ministro, Manmohan Singh, a scendere in campo per difendere l’operato dei suoi ministri dell’Economia. «Se questo non fosse stato fatto – ha affermato Manmohan Singh il 15 agosto 2010, riferendosi ai provvedimenti che avevano portato alla crescita dei prezzi del carburante – non sarebbe stato possibile per il nostro bilancio sopportare il fardello dei sussidi; e i nostri programmi per l’istruzione, la salute e l’impiego dei poveri sarebbe stato influenzato negativamente» [W/IE 15 agosto 2010, «Poor worst affected by price rise, says PM»].

Si è trattata, però, di una giustificazione assai poco convincente, data l’entità delle tasse dirette soppresse nel bilancio 2010-11, in continuazione di una tendenza già ben presente nella precedente legge di bilancio. Inoltre, come vedremo più avanti, negli ultimi mesi dell’anno sotto esame, doveva venire alla luce uno scandalo di enormi proporzioni finanziarie, quello sulla vendita sottocosto a privati delle frequenze elettromagnetiche di seconda generazione. In tale occasione sarebbe diventato sempre più evidente che un controllo più attento e un atteggiamento meno conciliante da parte di Manmohan Singh nei confronti del principale responsabile della gigantesca truffa, il ministro delle Telecomunicazioni Andimuthu Raja, avrebbero permesso di procurare al Tesoro somme enormi (secondo alcune valutazioni, pari a quasi sei volte la spesa complessiva annuale per l’istruzione) [Kumara 2010, § 7].

In sostanza, quindi, nonostante l’eloquenza del ministro delle Finanze e le giustificazioni del primo ministro sull’aumento della tassazione indiretta, non sembra del tutto esagerata la caratterizzazione del bilancio 2010-11, fatta dallo storico dell’economia Amiya Kumar Bagchi. Secondo Bagchi, infatti, esso era «un passo ulteriore nella realizzazione di [un’] India vibrante per gli introiti, per la ricchezza, per i risparmi, per l’istruzione e per l’energia imprenditoriale di una cuspide pari al 5-10% della popolazione, con il resto degli indiani al servizio di tale minoranza, impegnati a sopravvivere come una moltitudine a malapena alfabetizzata e malnutrita» [W/H 10 marzo 2010, «Vision 2010: a dangerous myopia»].

6. Il permanere della crisi agraria

Il galoppare dell’inflazione è stato il sintomo più immediatamente visibile, a livello economico, dei limiti della ripresa indiana. A livello politico, invece, il segno più evidente non solo dei limiti della ripresa economica ma, più in generale, del modello di sviluppo neo-liberista seguito dallo stato indiano a partire dall’estate del 1991 è stato il persistere della crisi dell’agricoltura, esemplificato dalla crescita negativa del settore primario nell’anno fiscale 2009-10. A sua volta, come già in passato [AM 2007, pp. 154-59], la crisi del settore primario ha trovato espressione in due fenomeni socialmente assai gravi: il primo è rappresentato dall’epidemia di suicidi fra gli agricoltori; il secondo dal diffondersi della lotta armata condotta nelle campagne e nelle giungle dai naxaliti (o maoisti).

Al momento in cui chiudiamo questo scritto (31 dicembre 2010), quale sia stato il numero di suicidi fra gli agricoltori nel corso del 2010 è un dato non ancora noto; ma, alla fine del 2010, è diventato pubblico quello riguardante il precedente anno solare: nel 2009 si erano suicidati 17.368 agricoltori, ciò che portava a 216.500 il numero complessivo di agricoltori suicidatisi a partire dal 1997 (il primo anno per cui esistono statistiche complete) [W/H 28 dicembre 2010, «17,368 farm suicides in 2009»]. Per certi versi più significativo è il fatto che il numero di suicidi nel 2009 sia stato il più alto a partire dal 2003, il che fa pensare che il fenomeno, lungi dall’essere in fase declinante, sia in ascesa.

Se la diffusione dei suicidi fra gli agricoltori è una forma estrema di protesta nei confronti di una situazione insostenibile, lo stesso può essere detto per la lotta armata condotta nelle campagne e nelle giungle indiane dagli insorti naxaliti. Geograficamente, l’uno e l’altro fenomeno, per quanto diffusi su gran parte del subcontinente, appaiono concentrati in due aree in parte coincidenti: i suicidi degli agricoltori sono particolarmente diffusi in cinque stati indiani: Madhya Pradesh, Chhattisgarh, Maharashtra, Andhra Pradesh e Karnataka; l’insurrezione naxalita è invece particolarmente diffusa in sette stati indiani: Bengala, Orissa, Bihar, Jharkhand, Chhattisgarh, Maharashtra e Andhra Pradesh.

Se i dati sui suicidi nel corso del 2010 non sono ancora noti, diverso è il caso per quanto riguarda l’insorgenza naxalita; questo per il semplice fatto che la lotta armata condotta dai maoisti ha assunto una crescente gravità e visibilità, conquistandosi un posto di rilievo sulle prime pagine della stampa nazionale e avviando un dibattito sulle sue cause e i suoi rimedi anche all’interno dello stesso partito del Congresso. È quindi sui progressi dell’insorgenza naxalita nel corso del 2010 che dobbiamo ora focalizzare la nostra attenzione.

7. L’insorgenza naxalita: dalla guerra di guerriglia alla guerra mobile

Gli ultimi mesi del 2009 avevano visto la diffusione sui media indiani della notizia che il governo si preparava a lanciare un’offensiva anti naxalita di grandi proporzioni, denominata «Green Hunt», condotta da 75.000 o 100.000 uomini, in larga parte appartenenti a vari corpi di polizia paramilitare, ma inquadrati da un reparto specializzato dell’esercito indiano, i Rashtriya Rifles, e con l’appoggio logistico dell’aviazione. La notizia di tale offensiva aveva suscitato le preoccupazioni non solo di molti intellettuali, ma di un certo numero di alti ufficiali delle forze armate e dei corpi paramilitari, compresi alcuni normalmente considerati dei «falchi». Tali preoccupazioni erano essenzialmente riconducibili al timore che «Green Hunt» si trasformasse in una sorta di guerra civile che avrebbe visto gli apparati repressivi dello stato impegnati soprattutto contro i gruppi tribali, cioè il settore più povero e più discriminato della società indiana, che, appunto per questo, nel corso degli ultimi anni, è diventato il principale terreno di coltura e di diffusione dell’insurrezione naxalita. Questi timori erano apparsi abbastanza fondati da indurre il ministro dell’Interno, Palaniappan Chidambaram, l’ideatore di «Green Hunt», a fare marcia indietro. «Green Hunt – aveva dichiarato Chidambaram il 6 novembre 2009 – è un’invenzione dei media». Contemporaneamente, fonti governative avevano espresso la convinzione che, per far fronte all’insurrezione naxalita, fosse indispensabile una politica di sviluppo mirata a favorire gli strati sociali più deboli, a partire dagli adivasi (i tribali), in modo da prosciugare l’acqua in cui nuotavano i pesci naxaliti.

Nel riportare la dichiarazione di Chidambaram, chi scrive aveva espresso il dubbio che l’intento del ministro dell’Interno potesse essere un depistaggio, destinato a rassicurare i critici di «Green Hunt» [AM 2009, pp. 109-110]. In effetti, gli sviluppi verificatisi a partire dall’inizio del 2010 hanno confermato la correttezza di tale dubbio: mentre non solo il ministro dell’Interno, ma anche i responsabili militari di «Green Hunt» continuavano ad insistere che non esisteva nessuna operazione con quel nome, l’operazione stessa ha preso il via, per quanto senza l’appoggio delle forze armate regolari [W/H 11 marzo 2010, «Anti-Maoist operations have begun»]. Rispetto alle indiscrezioni comparse sui media indiani nel 2009, la principale discrepanza è stata che, nella repressione anti naxalita, non sono state coinvolte le recalcitranti forze armate regolari. L’operazione, infatti, è stata affidata solo ai corpi paramilitari, in particolare la CRPF (Central Reserve Police Force). Essa, inoltre, si è articolata non solo e non tanto in massicce operazioni di rastrellamento (che pure vi sono state, condotte in contemporanea in più stati confinanti), quanto in un’azione militare mirata a «decapitare» il movimento maoista.

Ufficialmente quest’ultimo obiettivo è stato perseguito attraverso una strategia che mirava alla cattura dei 50 principali leader naxaliti; in effetti (come è stato prontamente sospettato da alcuni e come, in una serie di occasioni, si è visto essere il caso) tale strategia ha spesso comportato l’eliminazione fisica dei leader naxaliti. In almeno un caso – quello di Cherukuri Rajkumar, generalmente noto con il nome de guerre di Azad, uno dei massimi leader del movimento – vi è ragione di ritenere che l’eliminazione fisica, presentata alla stampa come il risultato di uno scontro armato, sia avvenuta dopo la cattura.

Al dispiegarsi di «Green Hunt» ha però fatto riscontro una capacità di reazione armata da parte dei naxaliti che ha dimostrato come il movimento abbia ormai compiuto un salto di qualità, passando da quella che alcuni analisti militari definiscono «guerra di guerriglia» a quella che questi stessi analisti definiscono «guerra mobile». In altre parole, i naxaliti non si limitano più ad attacchi «mordi e fuggi» contro pattuglie di pochi poliziotti, ma, con sempre maggior frequenza, passano ad azioni massicce contro colonne in movimento o contro reparti trincerati, finalizzate al completo annientamento dell’obiettivo.

Fra i numerosi attacchi di questo tipo, portati a termine nel corso del 2010, il più spettacolare è stato quello verificatosi il 6 aprile nelle foreste di Dantewada, il distretto più meridionale dello stato del Chhattisgarh. Tale azione, che, secondo una fonte di polizia, ha visto impegnati oltre mille ribelli, si è conclusa con il virtuale annientamento di un’intera compagnia della CRPF: sono infatti stati uccisi 75 membri della CRPF e un poliziotto, mentre altri 7 membri della CRPF sono stati feriti; i naxaliti, dal canto loro, si sono ritirati senza lasciare nessun caduto sul campo [W/H 7 aprile 2010, «Maoists Massacre 74 CRPF Men»; W/NR 7 aprile 2010, «76 Soldiers of CRPF Killed in Maoist Naxalite Attack ‘Social Terrorism’»; W/NDTV 7 a- prile 2010, «Did the Naxals take advantage of poor planning?»].

8. Perché lo stato indiano non sta vincendo la guerra contro i naxaliti

In sostanza, nel corso del 2010 è diventato chiaro che, almeno per il momento, le forze indiane di sicurezza, lungi dall’essere in grado di stroncare l’insorgenza naxalita, non riescono neppure a bloccarne la continua espansione in vaste aree geografiche del paese. Questo ha indotto una serie di commentatori ad interrogarsi sulle ragioni per cui le forze di sicurezza non stanno vincendo la guerra contro i naxaliti. Queste analisi mettono in luce due ordini di problemi. Il primo è che le forze di polizia sono, in India, numericamente del tutto insufficienti a garantire l’ordine pubblico, anche in assenza di un movimento insurrezionale armato, come quello naxalita. Così, ad esempio, Praveen Swami, un esperto di terrorismo e di guerra a bassa intensità, ha ricordato come nel dicembre 2008, secondo i dati del National Crime Record Bureau, l’India avesse una forza di polizia pari ad 1.300.000 unità; si tratta di una cifra apparentemente imponente, ma che, messa in rapporto alla popolazione, corrisponde a 128 poliziotti per ogni 100.000 abitanti, cioè una proporzione che è poco più della metà (250:100.000) di quella raccomandata dalle Nazioni Unite per società pacifiche, che non siano alle prese con «sfide maggiori» [W/H 23 luglio 2010, «India’s counter-insurgency conundrum»]. Dal 2008, secondo fonti governative, questo tasso è salito a 161,78 per 100.000; si tratta di una crescita di cui alcuni dubitano, perché, come nota Swami, avrebbe comportato l’arruolamento di 384.000 nuovi poliziotti in 18 mesi. Ma anche se si accettano queste nuove cifre, il rapporto polizia/popolazione continua a rimanere troppo basso; questo è vero anche nei due stati, il Jharkhand e il Chhattisgarh, dove l’insorgenza maoista è particolarmente forte e dove, di conseguenza, vi è stato il tentativo di espandere il più rapidamente possibile le forze di polizia. Queste, dal 2005 al 2010, sono passate da 136 a 206,98 per 100.000 abitanti nello Jharkhand e da 128 a 226,3 per 100.000 nel Chhattisgarh.

Il secondo problema è rappresentato dal fatto che, in realtà, la repressione anti maoista è stata affidata non tanto alle forze di polizia ordinaria, quanto ai corpi di polizia paramilitare. Fra questi, quello specificamente scelto e organizzato a tale scopo (in seguito al rapporto preparato nel 2003 dal Group of Ministers on Reforming the National Security System) è la già citata CRPF. Nel 1999, la CRPF era formata da 167.367 unità; nel 2007 il numero era stato portato a 260.873; nel 2010 si dice che abbia superato le 280.000 unità. E, all’inizio del 2010, quando l’operazione «Green Hunt» ha preso l’avvio, il grosso dei 70 battaglioni di forze paramilitari in essa impegnati apparteneva alla CRPF [W/R 9 dicembre 2010, «Why India is not winning against the Maoists»].

All’espansione numerica della CRPF non si è però accompagnato un paragonabile innalzamento del livello qualitativo: il numero degli ufficiali con esperienza sul campo è insufficiente; la truppa non è sottoposta ad un addestramento adeguato e, di regola, non ha familiarità con la lingua, la cultura e il terreno delle aree in cui si trova ad operare; ufficiali e truppa spesso non hanno un comportamento moralmente rigoroso, come dimostrato dall’arresto di alcuni di loro per vendita di armi al crimine organizzato in Uttar Pradesh. In sostanza, come nota Swami, tirando le somme sul funzionamento della CRPF, «tutto ciò che potrebbe lontanamente andare storto è andato storto».

Un tentativo di innalzare il basso livello operativo della CRPF è stato fatto nel 2008, attraverso la creazione di una forza d’élite formata da 10 battaglioni, detta COBRA (Combat Battalion for Resolut Action). Ma, a giudizio di Bibhu Prasad Routray, un ex alto funzionario dell’India’s National Security Council, «sotto ogni punto di vista, questa è un’unità troppo piccola per esercitare un qualsiasi impatto sui maoisti, che si sono allargati su un vasto territorio» [W/R 9 dicembre 2010, «Why India is not winning against the Maoists»].

Il risultato è che il livello di efficienza repressiva della CRPF si è dimostrato inferiore a quello di quei distaccamenti di polizia ordinaria che, come nel Chhattisgarh, hanno avuto un adeguato addestramento alla contro guerriglia, frequentando la locale Scuola di guerra nella giungla di Kanker. Così, dal gennaio al giugno 2010, nel Chhattisgarh, la polizia locale ha sostenuto di aver eliminato 37 naxaliti, perdendo 29 uomini, mentre la CRPF ha eliminato 10 naxaliti, perdendo ben 117 uomini [W/H 23 luglio 2010, «India’s counter-insurgency conundrum»].

A parte tutto questo, i rapporti fra CRPF e forze di polizia ordinarie sono segnati da forti tensioni e, per finire, l’intelligence disponibile si è rivelata nel complesso inadeguata [W/R 9 dicembre 2010, «Why India is not winning against the Maoists»].

In questa situazione, gli apparati di sicurezza indiani impegnati contro i naxaliti hanno riportato alcuni successi soprattutto nell’ambito della strategia volta a «decapitare» il movimento (dove, evidentemente, è stata impegnata il COBRA). Il numero di leader catturati o uccisi, infatti, è stato relativamente alto. Ciò nonostante, le forze repressive indiane non sono finora riuscite a riportare successi sul campo paragonabili a quello ottenuto dai loro avversari nella battaglia del 6 aprile e, di conseguenza, non sembrano in grado, almeno per ora, di sconfiggere un nemico la cui forza numerica è incerta, ma che, secondo tutte le stime, è nettamente inferiore a quella delle forze repressive dello stato indiano. Il numero dei naxaliti è stato infatti variamente stimato fra i 10.000 e i 33.000 uomini e donne (come era il caso delle Liberation Tigers of Tamil Eelam, anche fra i naxaliti vi sono molte donne combattenti). Secondo la stima più alta, le forze naxalite d’élite non ammontano a più di 3.000 unità, ma anche le altre componenti hanno acquisito una capacità operativa sempre più alta, fra l’altro con l’uso degli IED (Improvised Explosive Devices) [W/H 5 dicembre 2010, «Formation of PLGA a turning point in the Maoist movement»].

In sostanza, da un punto di vista strettamente militare, l’unica soluzione realistica sembrerebbe essere un massiccio ricorso alle forze armate regolari: esercito e aviazione. Ma, come si è notato, questa è una soluzione che desta l’acuta preoccupazione non solo di parti considerevoli dell’opinione pubblica, ma anche degli stessi vertici delle forze armate. Queste ultime sono già pesantemente impegnate da anni in ruoli di mantenimento dell’ordine pubblico in Kashmir e in alcuni stati del Nord-est, un compito che si è dimostrato difficile e demoralizzante. I vertici delle forze armate vedono quindi come un incubo l’assunzione di un impegno che le porterebbe ad espandere la loro azione repressiva contro le popolazioni locali da aree geograficamente marginali e poco estese del paese (quali la Valle del Kashmir e alcuni stati come il Manipur o il Nagaland) a un’amplissima fascia del territorio nazionale.

9. Chi aiuta i naxaliti?

Il livello di pericolosità raggiunto dal movimento naxalita ha spinto commentatori e politici a chiedersi se esso goda di appoggi esterni. In effetti, fonti ufficiali indiane sostengono che il movimento abbia coltivato e continui a coltivare rapporti con altri gruppi armati. In proposito esistono pochi dubbi sul fatto che vi siano stati rapporti importanti fra i naxaliti e le LTTE (Liberation Tigers of Tamil Eelam), gli insorti tamil dello Sri Lanka, protagonisti di una guerra civile di circa un quarto di secolo, terminata solo nel 2009. Quando la guerra era in corso, le Tigri tamil e i naxaliti hanno collaborato soprattutto per quanto riguardava il contrabbando di armi; dopo la sconfitta, pare che un certo numero di Tigri tamil abbiano trovato rifugio in India, nelle zone controllate dai naxaliti, e si siano sdebitati addestrandoli sul piano militare.

Altri gruppi con cui – a detta delle autorità indiane – i naxaliti intrattengono rapporti di collaborazione, finalizzati soprattutto al traffico d’armi, sono localizzati nel Nord-est dell’India e nel Bangladesh: si tratta dell’ULFA (United Liberation Front of Asom), del PLAM (People’s Liberation Front of Manipur), dell’NSCN-IM (Nationalist Socialist Council of Nagaland – Issac Muviah branch) e della fazione del Communist Party of Bangladesh guidata da Shailen Sarkar [W/Str 18 novembre 2010, «Pakistan and the Naxalite Movement in India»].

Il capo della polizia del Chhattisgarh, Vishwa Ranjan, ha inoltre dichiarato (11 novembre 2010) che, in aprile o in maggio, ad una riunione dei vertici naxaliti avrebbero preso parte due agenti operativi del LeT (Lashkar-e-Taiba) [Ibidem]. Il LeT, l’«Esercito dei puri», è la più pericolosa organizzazione terroristica oggi basata in Pakistan e assai attiva in India. Tra le sue operazioni più clamorose vi sono l’attacco contro il parlamento indiano del 13 dicembre 2001 e quello contro Mumbai del 26-28 novembre 2008.

Infine, secondo le dichiarazioni di un leader naxalita (Venkateshwar Reddy, alias Telugu Dipak), caduto nelle mani della polizia indiana, alcuni emissari del movimento avrebbero stabilito contatti con partiti o gruppi simpatizzanti in Bangladesh, nelle Filippine, in Perù e in Venezuela. Secondo questa fonte, i contatti in questione avrebbero portato alla formazione di un’organizzazione chiamata «Confederazione dei partiti comunisti», impegnata a procurare supporto logistico ai maoisti indiani [W/P 10 marzo 2010, «Foreign contacts pledge help to Maoists»].

Una volta ricordato l’insieme di questi legami (effettivi o presunti) fra i maoisti indiani e gruppi secessionisti indiani o organizzazioni armate o politiche non indiane, rimane però il fatto che i successi militari dei naxaliti sono spiegabili solo in minima parte da tali contatti. L’incontrovertibile dimostrazione di tale assunto è il fatto che gran parte del materiale bellico usato dai maoisti indiani – non solo armi da fuoco e munizioni, ma anche giubbotti anti proiettile, divise mimetiche e visori notturni – è bottino di guerra. Questa è la spiegazione, ad esempio, del fatto che i naxaliti dispongano di un certo numero di fucili di precisione israeliani Galil da 7,62 mm.: Israele, infatti, è diventato il principale fornitore di armi sofisticate anti guerriglia all’India, a cui ha fornito, fra l’altro, 4.000 Galil [W/C 31 gennaio 2010, «India For Selective Assassination Of It’s [sic] Own Children?»; W/R 12 aprile 2010, «Israel to help West Bengal takle Maoists»; W/ToI 1° ottobre 2010, «Israeli arms give CRPF the edge in Jangalmahal»]. Inoltre, i naxaliti sono stati in grado di procurarsi esplosivi e detonatori in abbondanza, saccheggiando i depositi dei cantieri minerari presenti nei territori in cui agiscono. Infine, nei santuari più o meno estesi di cui i guerriglieri dispongono soprattutto nel Chhattisgarh e nello Jharkhand, sono state messe in funzione fabbriche artigianali per produrre soprattutto proiettili di mortaio e le componenti IED (Improvised Explosive Devices), usati per colpire i mezzi di trasporto delle forze di sicurezza [W/Str 18 novembre 2010, «Pakistan and the Naxalite Movement in India»].

10. Come sconfiggere i naxaliti? Il dibattito all’interno del Congresso

La battaglia del 6 aprile (perché tale è stata) ha portato alla luce l’esistenza all’interno dello stesso Congresso, cioè del partito di maggioranza relativa, di un conflitto d’opinioni su come affrontare la minaccia naxalita. A circa una settimana da quell’evento, infatti, Digvijay Singh, uno dei notabili del partito, segretario generale dell’AICC (All India Congress Committee), capo ministro del Madhya Pradesh per due mandati e, a detta di alcuni, il mentore di Rahul Gandhi, ha firmato un duro articolo di critica contro il ministro dell’Interno, articolo pubblicato sull’«Economic Times», cioè il principale quotidiano economico indiano.

Nel suo scritto, Singh accusava Chidambaram non solo di arroganza intellettuale, ma anche di «non prendere in considerazione la gente che vive nell’area coinvolta [nell’insorgenza naxalita]». Singh poneva in luce come il ministro dell’Interno trattasse la questione come «semplicemente un problema di legge e d’ordine, senza prendere in considerazione i problemi che influenzano le popolazioni tribali». In proposito Singh ricordava che, ogni qual volta egli aveva sollevato questi problemi, Chidambaram aveva replicato che non era responsabilità sua occuparsi dei problemi sociali delle popolazioni tribali. Da ciò, l’ex capo ministro del Madhya Pradesh prendeva spunto per sottolineare l’inefficienza dei vari programmi pro poveri nel rimediare al disagio economico dei tribali, la non applicazione dalla legislazione a favore dei loro diritti e, per finire, il perseguimento di politiche concernenti le foreste, le miniere, la terra e l’acqua lungi dall’essere «centrate sulla gente»,

«Possiamo risolvere il problema naxalita senza il supporto della gente e solamente attraverso la polizia o i corpi paramilitari o le forze armate?», chiedeva retoricamente Singh. E consigliava di reclutare un battaglione direttamente fra i tribali delle regioni coinvolte nell’insorgenza naxalita, «abbassando gli standard fisici e d’istruzione». Dopo tutto, notava Singh, i membri della CRPF, «per lo più reclutati sulla base degli standard fisici», non erano stati in grado di «ottenere risultati sul campo» e si erano dimostrati incapaci di procurarsi le informazioni necessarie a rendersi conto del fatto che, come alla vigilia della battaglia del 6 aprile, sull’area fossero in movimento 600-1.000 maoisti.

La presa di posizione di Digvijay Singh portava allo scoperto una differenza d’opinioni che era emersa nei mesi precedenti all’interno del partito e sfidava una direttiva del primo ministro, Manmohan Singh, che aveva proibito una discussione pubblica del problema. Non sorprende, quindi, che il partito nel suo complesso si sia dissociato dall’analisi di Digvijay Singh; inoltre, il primo ministro ha respinto le dimissioni che, dopo la battaglia del 6 aprile, erano state rassegnate da Chidambaram.

È chiaro, però, che questo non significava l’emarginazione né di Digvijay Singh, né delle tesi da lui espresse. Non solo nel Congresso, ma in altri partiti, di cui alcuni schierati nel campo dell’Opposizione, esistono forti dubbi sull’idea che la risposta ai naxaliti possa essere solo di tipo militare. In effetti, il 26 novembre, un gruppo ristretto del governo indiano, il Cabinet Committee on Economic Affairs, ha deciso il varo di un «piano d’azione integrato», con il preciso scopo di «affrontare il problema naxalita attraverso lo sviluppo economico». Il piano comportava un esborso complessivo di 33 miliardi di rupie (al 31 dicembre 2010 pari a un po’ più di 546 milioni di euro) in 60 distretti arretrati dal punto di vista socio-economico e prevalentemente abitati da tribali in nove differenti stati dell’Unione. La somma così allocata avrebbe dovuto essere spesa nei singoli distretti da comitati locali, capeggiati dal District Collector (cioè il funzionario che rappresenta lo stato centrale a livello di distretto ed è incaricato del mantenimento dell’ordine e della riscossione delle imposte) e a cui avrebbero partecipato anche il District Superintendent of Police e il District Forest Officer. Nelle intenzioni del governo, il piano avrebbe dovuto diventare operativo in tempi brevissimi; esso sarebbe stato inaugurato da una riunione dei Collectors dei 60 distretti prescelti, durante la quale si sarebbe fatta presente l’urgenza di completare l’attuazione del piano attraverso la spesa dei fondi a disposizione nel corso dei rimanenti quattro mesi dell’anno fiscale 2010-11. Tali fondi avrebbero dovuto essere utilizzati per progetti «fattibili», quali la costruzione di strade, scuole, edifici pubblici e attraverso un’«adeguata messa a regime del sistema pubblico di distribuzione [delle granaglie commestibili a basso prezzo]» [W/NTW 27 novembre 2010, «Govt unveils Rs 3,300 cr plan for naxal districts»].

Quella presa il 26 novembre era, ovviamente, una decisione condivisibile, che cercava di farsi carico delle preoccupazioni e delle critiche di coloro che la pensavano come Digvijay Singh. Rimane però il fatto che i provvedimenti presi, anche se un passo nella direzione giusta, erano decisamente insufficienti a far fronte ai problemi sociali alla base del consenso nei confronti del movimento maoista. È ormai chiaro, infatti, che tale consenso è particolarmente forte fra le popolazioni tribali non solo per la situazione di povertà economica e di discriminazione sociale che ha rappresentato il loro fato da secoli a questa parte, ma per il repentino peggioramento di tale situazione, verificatasi in anni recenti. A sua volta, questo peggioramento è direttamente legato alle attività di un certo numero di grandi multinazionali indiane e straniere, interessate a sfruttare i ricchi giacimenti minerari presenti nei territori abitati dai tribali. Con l’aiuto di agenti in loco, che, in genere, coincidono con l’élite politica ed economica non tribale degli stati dell’Unione dove sono presenti i tribali, le multinazionali hanno fatto di tutto per allontanare i tribali dalle loro terre avite, al fine di poterle sfruttare ai propri fini. Per raggiungere questo obiettivo, le multinazionali e i loro agenti in loco si sono serviti dell’apparato dello stato a livello locale, ad incominciare dalle forze di polizia, e, quando l’azione di questo non è stata giudicata sufficiente, non hanno esitato a fare ricorso alla formazione di milizie mercenarie private, fra le quali la più nota è la famigerata Salwa Judum, attiva nel Chhattisgarh. Attraverso l’apparato dello stato a livello locale e con il supporto di milizie mercenarie, le multinazionali e l’élite locale che ne è di fatto la longa manus, hanno privato i tribali dei loro diritti e ne hanno criminalizzato le associazioni di autotutela.

Questo, ad esempio, è il caso del CMAS (Chasi Mulia Adivasi Sangha) dell’Orissa, nato per reclamare quelle terre di cui le locali popolazioni tribali sono state illegalmente espropriate. Nel reclamare la restituzione di tali terre, il CMAS non ha fatto che chiedere l’attuazione di una serie di leggi statali (che, fra l’altro, danno séguito al dettato costituzionale indiano). Tali leggi riconoscono i diritti dei tribali sulle proprie terre avite e sanciscono la proibizione del loro trasferimento ai non tribali. Nonostante però tali leggi, i reclami del CMAS ai tribunali dell’Orissa non hanno portato a nessun risultato; da qui la decisione del Sangha di riappropriarsi, attraverso l’azione diretta, delle terre a loro illegalmente sottratte.

Tale azione, condotta nell’ambito dei parametri della lotta non violenta gandhiana mediante mobilitazioni di massa, agitazioni e proteste, ha però comportato reazioni durissime da parte della polizia. Gli organizzatori del movimento sono stati intimiditi ed arrestati, a volte colpendo anche i membri delle loro famiglie (non si spiegherebbe altrimenti l’arresto anche di bambini). Non solo, i rappresentanti delle locali élite politico-sociali non tribali, agendo d’intesa con i rappresentanti delle multinazionali interessate nello sfruttamento dei giacimenti minerari locali, hanno incominciato a creare i Shanti committees (Comitati per la pace), cioè, a tutti gli effetti, milizie mercenarie al loro servizio, sul modello del Salwa Judumdel vicino Chhattisgarh. Ciò ha portato ad un inasprimento della situazione sul terreno, inducendo gli attivisti del Sangha a rifugiarsi nelle giungle locali.

Come è stato confidato da un anonimo alto funzionario della polizia locale a Sudha Ramachandran, un giornalista di Bangalore: «La caccia agli attivisti del CMAS e le intimidazioni da parte della polizia nei confronti dei tribali ha costretto i tribali a cercare rifugio nelle circostanti foreste, che sono un nascondiglio dei maoisti». Secondo, quindi, la fonte in questione: «La polizia, con le sue azioni, sta inducendo i tribali a diventare maoisti» [W/AT 16 gennaio 2010, «India drives tribals into Maoist arms», § 3].

In questa situazione – che non è eccezionale, ma esemplare di ciò che è successo e sta succedendo nelle altre aree popolate dai tribali – l’unica possibilità di non spingere le popolazioni tribali nelle fila dei maoisti sarebbe quella che il governo centrale si facesse carico della difesa dei loro diritti nei confronti sia delle multinazionali interessate allo sfruttamento delle risorse minerarie sia degli alleati a livello locale di tali multinazionali. Ma la verità è che, a parte provvedimenti tampone, come quelli presi il 26 novembre, sopra ricordati, lo stato indiano non ha fatto nulla di concreto. Come abbiamo detto, discutendo del bilancio non solo dell’anno sotto esame, ma anche degli anni precedenti, è chiaro che, a parte molta retorica e pochi provvedimenti concreti a favore degli strati sociali deboli, il modello di sviluppo perseguito fin dall’inizio degli anni Novanta privilegia gli interessi dei grandi gruppi capitalisti, indiani e internazionali. A parte questo, esiste un rapporto diretto fra il ministro dell’Interno e una di queste multinazionali, la Vedanta Resources. Fondata dall’imprenditore indiano Anil Agarwal nel 1976 a Bombay, ma oggi basata a Londra, la Vedanta è una delle maggiori compagnie a livello mondiale nel settore minerario. Come ricordato per la prima volta dal giornalista investigativo Rohit Poddar, in un libro da lui pubblicato nel 2006 in California (e prontamente messo al bando in India), Chidambaram ha fatto parte del comitato direttivo della Vedanta fino al 22 maggio 2004, quando si era dimesso in seguito alla sua nomina a ministro delle Finanze nel primo governo dell’UPA. In effetti, nel 2003, il futuro ministro dell’UPA, insieme alla moglie, aveva difeso nell’alta corte di Mumbai la Sterlite Industries, un’industria di proprietà della Vedanta, dall’accusa di evasione fiscale e doganale. In quell’occasione Chidambaram era riuscito a ottenere una dilazione nella procedura per il recupero delle somme evase e, una volta diventato ministro delle Finanze, aveva fatto in modo che l’intero procedimento si concludesse con un nulla di fatto [W/S 17 aprile 2010, «Chidambaram must quit»; W/AT 26 maggio 2010, «India’s war on Maoists under attack», §§ 10-12].

Da allora, come documentato da Poddar e da altri, Chidambaram ha portato avanti, prima come ministro delle Finanze e poi come ministro dell’Interno, una politica nettamente schierata a favore del grande capitale in generale e degli interessi delle compagnie minerarie in particolare. Se si vedono le cose sotto questo profilo, la decisione di Chidambaram di trattare il problema naxalita – come denunciato da Digvijay Singh – alla stregua di una questione esclusivamente di legge e d’ordine pubblico trova una sua precisa spiegazione.

Il problema, naturalmente, è che a determinare l’atteggiamento del governo indiano nei confronti delle popolazioni tribali non è solo quello che è stato denunciato come un conflitto d’interessi, che indurrebbe Chidambaram a sponsorizzare politiche a favore degli interessi minerari. In definitiva, ciò che appare più importante è che, per ragioni ideologiche (e, forse, non solo ideologiche), la politica a favore degli interessi minerari è largamente condivisa dalla maggior parte dei membri del governo indiano, ad incominciare dallo stesso primo ministro, Manmohan Singh.

In questa situazione – e a meno che gli attuali equilibri di potere in India non cambino in futuro in maniera decisiva – è difficile pensare che il problema naxalita possa essere «risolto» con strumenti diversi da quelli militari.

11. «L’anno di tutte le frodi»

Come si è notato all’inizio di questo scritto, se l’insorgenza naxalita può essere considerata come uno specchio accurato delle limitazioni di fondo che caratterizzano la democrazia e il capitalismo indiani, lo stesso può essere detto del seguito di scandali che sono gradualmente emersi nella seconda metà dell’anno. In effetti, tali scandali hanno preso una dimensione tale che, alla fine dell’anno, nel fare il bilancio del 2010, gran parte dei giornali e dei commentatori politici, oltre a molti esponenti dell’opposizione, hanno indicato appunto nelle frodi che vi hanno dato origine il tratto distintivo dell’anno che si chiudeva, che il quotidiano telematico «rediff.com» ha, con frase felice, definito il 2010 come l’«anno di tutte le frodi» [W/R 31 dicembre, «2010, The Year of All Scams»].

Il risultato di questo seguito di scandali è stato quello di mettere in difficoltà il governo e, gradualmente, di gettare un’ombra sullo stesso primo ministro, Manmohan Singh. Per quanto la maggior parte dei commentatori non sia arrivata a mettere in dubbio la sua onestà personale, molti hanno ravvisato nel suo comportamento una pericolosa carenza di leadership.

12. I Giochi del Commonwealth

Le prime frodi a diventare di dominio pubblico sono state quelle legate alla preparazione dei Giochi del Commonwealth, tenutisi a Delhi fra il 3 e il 14 ottobre. Lo svolgimento vero e proprio dei Giochi, nonostante una serie di problemi, è stato quanto meno accettabile e, anche dal punto di vista strettamente atletico, l’India si è classificata in modo onorevole, conquistando il secondo posto nel numero di medaglie d’oro (dopo l’Australia) e il terzo nel medagliere complessivo (dopo, nell’ordine, l’Australia e l’Inghilterra). Questi relativi successi, però, non hanno cancellato la penosa impressione d’inefficienza e di disorganizzazione lasciata dalla preparazione dell’evento, soprattutto perché di ciò si è largamente parlato sui media mondiali (compresi quelli italiani) e perché non è stato possibile evitare il paragone con la perfetta prova d’efficienza dimostrata dalla Cina solo due anni prima nella preparazione e nell’esecuzione dei ben più impegnativi giochi olimpici.

La brutta figura agli occhi del mondo, per quanto irritante per una classe politica e una classe media desiderose di vedere accettare l’India come una grande potenza mondiale, non è stato però l’aspetto peggiore della questione. Di maggiore importanza è stato il fatto che, nei mesi precedenti i Giochi, è diventato gradualmente chiaro che i problemi di inefficienza e di disorganizzazione nei preparativi non erano che l’altra faccia di truffe e malversazioni di vario genere. Questo ha cominciato a venire alla luce il 28 luglio, quando la Central Vigilance Commission, un organo di controllo governativo, ha rilasciato un rapporto dove si evidenziavano irregolarità di vario genere in 14 progetti legati ai Giochi. Subito dopo, il 30 luglio, il canale televisivo inglese di notizie «Time Now», subito ripreso da altri canali televisivi e dai quotidiani indiani, rivelava che oltre 450.000 sterline erano state pagate dal comitato organizzativo dei Giochi ad una società basata in Inghilterra, l’A. M. Films (a quanto pare per l’organizzazione della cerimonia della consegna del «bastone della regina», che si fa a Londra e che apre ufficialmente i Giochi del Commonwealth), senza che vi fosse stata nessuna gara d’appalto e senza che fosse stato stipulato nessun contratto fra la società e il comitato organizzativo [W/H 31 luglio 2010, «Major scam hits Commonwealth Games»].

Quelle di «Time Now» non erano però che l’inizio di una serie di rivelazioni sia sulla questione dell’A.M. Films, che si rivelava essere una società di comodo, sia su una serie di altri contratti d’appalto dati in maniera irregolare e con esborsi chiaramente esagerati da parte del comitato organizzativo. A questo faceva riscontro la constatazione che le costruzioni date in appalto stavano subendo una serie di gravi ritardi e venivano realizzate con materiali di scarto (tanto che, prima dell’inaugurazione dei Giochi, si verificava il crollo di un ponte e quello del controsoffitto di una palestra). Diventava anche di dominio pubblico che le costruzioni in questione venivano realizzate con l’impiego di uomini e donne (ma anche di bambini) pagati al di sotto dei salari minimi fissati dalle leggi indiane. Costoro, inoltre, erano costretti a lavorare in un regime di controllo quasi poliziesco e in condizioni segnate dalla mancanza di sicurezza e di igiene, tali da comportare la morte di circa un centinaio di persone in seguito ad incidenti e malattie [Singh 2010; Jayasekera 2010].

In questa situazione, il CBI (Central Bureau of Investigation) avviava una serie d’indagini che, alla fine dell’anno, portavano all’arresto di tre persone coinvolte nelle frodi legate ai Giochi. A rendere l’intera questione ulteriormente torbida veniva poi la rivelazione di due detenuti nella stessa prigione di alta sicurezza in cui erano stati rinchiusi i tre personaggi coinvolti nello scandalo dei Commonwealth Games. Costoro, sotto processo in quanto imputati d’omicidio, dichiaravano di fronte al giudice di aver subito pressioni dalle autorità della prigione, affinché assassinassero due dei loro tre compagni di prigione, imputati delle frodi relative ai Giochi [W/H 21 dicembre 2010, «Under pressure to kill jailed CWG officials, say undertrials»].

Ma, almeno per il momento, i pesci più grossi riuscivano a sfuggire alla rete della giustizia indiana. Fra questi vi era, ancora alla data della chiusura di questo scritto (31 dicembre 2010), colui che sembra essere stato l’uomo chiave in gran parte delle truffe e delle malversazioni legate ai Giochi, cioè il presidente del comitato organizzativo, Suresh Kalmadi.

Il 9 novembre, Kalmadi, un membro del Congresso e segretario dell’ala parlamentare del partito del Congresso, è stato rimosso da quest’ultima carica per espressa volontà di Sonia Gandhi, la presidente del partito [W/S 9 novembre 2010, «Congress axes scamtainted Chavan & Kalmadi»]. E, negli ultimi giorni dell’anno è diventato chiaro che l’indagine del CBI si stava focalizzando sempre più sulle sue attività [W/H 24 dicembre 2010, «CBI questions Kalmadi about documents»].

13. Lo scandalo della svendita delle bande elettromagnetiche 2G

Nel mese di novembre, accanto allo scandalo dei Giochi del Commonwealth, è esploso quello legato alla svendita della bande elettromagnetiche di seconda generazione o 2G, usate dai provider di cellulari. In effetti, la truffa stessa è stata perpetrata nel corso del 2007 e del 2008 ad opera del ministro delle Telecomunicazioni, Andimuthu Raja, un parlamentare del DMK (un partito dello stato meridionale del Tamil Nadu, membro sia del primo, sia del secondo governo dell’UPA), ma si è trasformata in uno scandalo di grandi proporzioni solo negli ultimi due mesi del 2010.

In effetti, che il metodo seguito da Raja nell’assegnare a imprese private le bande elettromagnetiche 2G non fosse al di sopra di ogni sospetto era già stato sostenuto nel 2008 da Subramanian Swamy, un noto economista e attivista politico di destra (anche se, da alcuni anni, non legato a nessun partito). Swamy, nel novembre 2008 aveva scritto al primo ministro, chiedendogli, secondo il dettato della legge indiana, il nulla osta per iniziare un procedimento giudiziario nei confronti del ministro Raja, per il suo ruolo nella vendita delle bande elettromagnetiche 2G. Ma, per quanto, sempre secondo la legge, Manmohan Singh fosse obbligato a rispondere in un senso o nell’altro alla richiesta di Swamy nell’arco di un massimo di tre mesi, la risposta non era mai stata data, tanto che l’intera questione era sembrata esaurirsi a quel punto. Invece, nel 2010, essa è riemersa come risultato di un’indagine avviata nel corso del 2008 e del 2009 dall’Indian Income Tax Department su una nota lobbista, Nira Radia, sospettata di evasione fiscale e di riciclaggio. Tale indagine aveva comportato mesi di registrazioni delle comunicazioni telefoniche fra Nira Radia e uomini politici, noti giornalisti e alcuni fra i nomi più importanti del capitalismo indiano. Tali registrazioni avevano rivelato come Radia fosse al centro di una rete di collusione e di corruzione, in grado d’influenzare, a beneficio di varie aziende e di potenti uomini d’affari, il mondo della politica, anche attraverso la complicità di una serie di giornalisti famosi ed influenti. Fra l’altro, le registrazioni in questione svelavano il ruolo di Nira Radia nel predeterminare i beneficiari delle vendite fatte da Andimuthu Raja delle licenze 2G.

Data la configurazione dei possibili reati venuti alla luce attraverso le registrazioni, queste venivano acquisite dal CBI, che iniziava una sua autonoma indagine sulle illegalità rivelate dalle registrazioni. Tuttavia l’indagine non decollava, fra l’altro perché al CBI veniva negato il permesso, da parte di «alte autorità», d’interrogare Nira Radia [W/P 28 aprile 2010, «Tapped and Trapped»].

È stato a quel punto che un articolo intitolato Tapped and Trapped veniva pubblicato il 28 aprile 2010 dal giornalista investigativo J. Gopikrishnan sul «Pioneer» (un quotidiano legato alle posizioni del principale partito della Destra, il Bharatiya Janata Party). Nell’articolo, evidentemente basato su fonti anonime interne al CBI, si dava notizia dell’intera indagine, della sua rilevanza per la questione delle frequenze 2G e del ruolo di Nira Radia e di Andimuthu Raja. Nello stesso articolo, inoltre, si metteva in luce come le intercettazioni della Radia indicassero il sussistere di reati legati al riciclaggio di fondi neri e al tentativo di condizionare progetti di vario genere nell’ambito delle telecomunicazioni, del petrolio «e anche dei media» [Ibidem].

Al momento della pubblicazione, tuttavia, l’articolo aveva una scarsa eco. La cosa non è strana, visto che, dato il coinvolgimento nell’affaire Radia di un congruo numero di eminenti giornalisti, l’atteggiamento dei media diventava quello di censurare la notizia. Questa, però, si diffondeva attraverso l’operato sia di social networks, come Twitter e Facebook, sia di un certo numero di blog.

Infine, il 10 novembre 2010, il revisore generale dello stato (Comptroller and Auditor General of India), Vinod Rai, annunciava alla stampa di aver consegnato al governo un rapporto sulla questione della vendita delle licenze 2G e sul ruolo in essa avuto dal ministro Raja, preannunciandone la discussione in parlamento. Contemporaneamente, trapelava la notizia che lo stato avesse perso somme colossali a causa delle dubbie procedure seguite dal ministro Raja nel distribuire le licenze [ad es. W/ToI 10 novembre 2010, «2G scam: ‘Raja to blame for losing Rs 1.76L cr’» e W/ET 10 novembre 2010, «CAG submits report on 2G spectrum to govt: Vinod Rai»]. A quel punto, una serie di giornali indiani, in particolare i settimanali «Open» e «Outlook» e i quotidiani «The Hindu», «Business Line», «Deccan Herald» e «Indian Express» davano sempre più spazio allo scandalo; in particolare prima «Open» e poi «Outlook» riuscivano a procurarsi e rendevano pubbliche sui propri siti estratti delle registrazioni delle telefonate di Nira Radia.

Le indiscrezioni comparse sui media indiani rivelavano comportamenti talmente gravi da parte del ministro delle Telecomunicazioni che questi, che in un primo tempo aveva risposto con iattanza alle accuse che gli erano fatte, il 14 novembre, cioè il giorno prima della discussione in parlamento del rapporto del controllore generale, era costretto a rassegnare le proprie dimissioni dalle pressioni della leadership del Congresso e dello stesso DMK [W/IE 14 novembre 2010, «Telecom Minister A Raja resigns»; W/NDTV 15 novembre 2010, «The phone calls that led to Raja resigning»].

Il rapporto, presentato al parlamento il 16 novembre (e pubblicato per intero sul sito di NDTV [http://drop.ndtv.com/pdf/CAG.pdf]), dava sostanza alle indiscrezioni comparse nei giorni precedenti sui media, accusando Raja di aver venduto le licenze 2G «in una maniera arbitraria, ingiusta e iniqua». Secondo la ricostruzione del controllore generale, infatti, le bande elettromagnetiche erano state distribuite in base non a regolari gare d’appalto, ma al principio di chi prima arriva, prima viene servito. Non solo, era chiaro che anche il discutibilissimo principio in questione era stato distorto, sia anticipando le originarie date di scadenza delle cessioni (in modo, evidentemente, da escludere alcune società e da favorirne altre), sia accettando per buoni documenti fittizi, non svolgendo alcuna seria indagine sul fatto che le concessionarie prescelte disponessero del capitale richiesto dalla legge e del know-how necessario a sfruttare le concessioni, sia scartando arbitrariamente o in base a pretesti un certo numero di aziende che, in base al principio «chi prima arriva, prima vien servito» avrebbero avuto diritto alle licenze. Come se non bastasse, le bande elettromagnetiche erano state svendute, nel 2008, ai prezzi del 2001. In molti casi, le compagnie che le avevano acquistate, non avendo né il capitale né il know-how per utilizzarle, avevano poi provveduto a rivenderle totalmente o parzialmente ad altre compagnie, realizzando guadagni colossali [W/NDTV 16 novembre 2010, «2G Spectrum Scam: 85 companies got licenses by suppressing facts, says CAG»; W/H 17 novembre 2010, «Allocation ‘arbitrary, unfair and inequitable’»; W/Teh 1° gennaio 2011, «The ABC of the 2G Scam»; Kumara 2010].

Secondo i calcoli stessi del controllore generale dello stato, la vendita sottocosto delle bande elettromagnetiche 2G aveva portato ad un incasso da parte dello stato pari a 107,72 miliardi di rupie e ad una perdita netta di 1.767 miliardi di rupie (una somma, quest’ultima, che al cambio euro/rupia del 15 novembre 2010, corrispondeva a 28.712.000.000 euro). La cifra in questione era talmente colossale da dare una scossa all’opinione pubblica indiana e da galvanizzare i partiti d’opposizione. Questi chiedevano la creazione di un comitato parlamentare congiunto che indagasse sul caso Radia-2G, richiesta che veniva respinta dal governo. La reazione dell’opposizione era quella di bloccare i lavori della sessione invernale del parlamento, un boicottaggio destinato a prolungarsi per 22 giorni e a concludersi (con la minaccia che si trattasse non di una conclusione, ma soltanto di una sospensione) solo con la chiusura della sessione.

In parallelo alla reazione dell’opposizione e dell’opinione pubblica vi era quella della Corte Suprema. Questa, il 15 novembre, chiedeva pubblicamente al primo ministro la ragione della sua prolungata inazione a proposito della questione delle frequenze 2G e, dieci giorni dopo, nella persona dei giudici A.K. Ganguly e G.S. Singhvi, censurava il CBI per la lentezza e l’esitazione dimostrati nell’indagare sul ruolo di Andimuthu Raja.

La posizione del governo, ma in particolare quella personale di Manmohan Singh, risultava poi ulteriormente compromessa quando, il 23 dicembre, il prestigioso quotidiano «The Hindu» pubblicava sul proprio sito la copie scannerizzate di una serie di lettere che erano state scambiate fra Manmohan Singh e Andimuthu Raja fra il novembre 2007 e il gennaio 2008. In esse, il primo ministro esprimeva una serie di dubbi sul comportamento del ministero delle Telecomunicazioni in occasione della vendita delle frequenze 2G, dubbi a cui Raja aveva risposto sostenendo che, nel ministero da lui presieduto, non vi fosse stata nessuna deviazione dalle consuete regole e procedure e che l’azione del ministero si fosse svolta con «piena trasparenza». La corrispondenza faceva anche riferimento ad un incontro personale fra Raja e Manmohan Singh e fra il primo e il ministro Mukherjee, allora a capo di un gruppo di ministri incaricato di occuparsi del problema della cessione delle frequenze 2G [W/M-R]. La sostanza della corrispondenza era quindi che sia il primo ministro sia Pranab Mukherjee erano al corrente delle dubbie attività di Raja, ma che né l’uno né l’altro avevano fatto nulla per porvi rimedio.

14. Conclusione

Gli scandali legati ai Giochi del Commonwealth e alle frequenze 2G non erano i soli a colpire il Congresso. In Maharashtra, ad esempio, nei mesi di ottobre e novembre era venuto alla luce lo scandalo legato alla costruzione di un grattacielo a Colaba, una delle zone eleganti di Mumbai. Gli alloggi del grattacielo in questione, costruito dalla Adarsh Housing Society, ufficialmente per ospitare le famiglie dei caduti nella guerra di Kargil del 1999, erano stati in realtà assegnati ad alti ufficiali, politici e burocrati, che nulla avevano avuto a che fare con quell’evento. Come se non bastasse, la costruzione stessa era stata fatta in spregio alle norme ambientali vigenti. Nello scandalo erano stati coinvolti anche il capo ministro (un esponente del Congresso, che era stato costretto a dimettersi dalla dirigenza nazionale del suo partito), otto ministri, 16 dirigenti della burocrazia e 30 alti ufficiali dell’esercito [W/R 2 novembre 2010, «Why A K Anthony must clear the Adarsh scam mess»; W/S 9 novembre 2010, «Congress axes scamtainted Chavan & Kalmadi»].

Come si è detto, tutti questi scandali erano stati usati dall’Opposizione, ma in particolare dal BJP, per attaccare il governo dell’UPA e, in particolar modo, il Congresso. Vero è che l’operato dei passati governi del BJP nel campo delle telecomunicazioni era stato tutt’altro che limpido e che, nel 2010, si era scoperto che uno dei suoi membri di spicco, B.S. Yedyurappa, capo ministro del Karnataka, aveva fatto uso dei propri poteri per assegnare ingenti proprietà terriere ai propri parenti. Ma questo non era stato di grande aiuto per il Congresso. Oltre agli scandali in sé, quello che ne aveva danneggiato l’immagine erano stati l’esitazione e il ritardo con cui la leadership del partito aveva preso provvedimenti contro i responsabili delle frodi. Così, ad esempio, nonostante che il comportamento del presidente del comitato organizzativo dei Giochi del Commonwealth fosse stato fatto oggetto di pesanti critiche già nella prima metà dell’anno, il 13 agosto i vertici del Congresso, dopo aver preso in considerazione l’opportunità di rimuoverlo dalla sua carica, non avevano fatto nulla [W/Thai 13 agosto 2010, «Congress core committee fails to arrive at decision on Kalmadi»]. Era stato solo il 9 novembre, cioè dopo la conclusione dei giochi e quando il CBI aveva iniziato un’indagine su di lui, che, come abbiamo visto, la leadership aveva preso provvedimenti contro Kalmadi. Ben più grave, come si è ricordato, era stata l’incapacità d’agire dimostrata per anni da parte della leadership del Congresso e del governo, ad incominciare dal primo ministro, nel caso dell’affaire 2G e delle dubbie attività di Andimuthu Raja.

Accanto agli scandali, il mese di novembre era segnato da un al- tro sviluppo negativo per il Congresso. In quel periodo, infatti, si tenevano le elezioni nello stato del Bihar, in cui l’NDA (la National Democratic Alliance, cioè l’alleanza di Destra già al potere nello stato), riconquistava il potere, migliorando le proprie posizioni. Il principale partito dell’alleanza, che nel Bihar era il Janata Dal (United) del capo ministro Nitish Kumar, passava da da 88 a 115 seggi e il BJP da 55 a 91. In realtà, data l’abilità e la popolarità di Nitish Kumar il risultato non era mai stato in dubbio; ma, a rendere più bruciante una sconfitta preannunciata era il fatto che il Congresso vedesse la sua già scarsa rappresentanza più che dimezzata (da 9 rappresentanti a 4) [W/EC]. Era quindi un Congresso in difficoltà quello che si riuniva dal 18 al 20 dicembre a Burari, nei pressi di Delhi, per celebrare l’inizio del 125° anno d’esistenza del «Grand Old Party» indiano. Ciò nonostante, Sonia Gandhi e Manmohan Singh apparivano «in gran forma»: la prima lanciava l’appello a rilanciare la lotta contro la corruzione a tutti i livelli della società, ma soprattutto fra le fila del partito, presentando all’uopo un piano in cinque punti; Singh difendeva con vigore la propria onestà personale. Soprattutto, la leadership del partito, anche attraverso un appassionato discorso di Digvijay Singh, poneva in primo piano, con grande enfasi, la necessità di continuare la lotta a favore del laicismo e contro il BJP e le organizzazioni extraparlamentari del fondamentalismo indù. Il partito, quindi, faceva propria la valutazione fatta in confidenza da Rahul Gandhi all’ambasciatore americano a Delhi il 20 luglio 2009, e rivelata da WikiLeaks [W/Wiki], che il fondamentalismo indù rappresentasse in prospettiva un pericolo per il paese assai maggiore di quello rappresentato dal terrorismo di gruppi islamisti come il Lashkar-e-Taiba (l’organizzazione basata in Pakistan, autrice dell’attacco al parlamento del 13 dicembre 2001 e dell’azione terrorista a Mumbai del 26-29 novembre 2008).

Nel complesso, quella data dalla leadership del Congresso, in particolare da Sonia Gandhi, era una prestazione inaspettatamente buona, che sembrava rincuorare un partito messo in difficoltà dagli eventi degli ultimi mesi. In effetti, era una prestazione tale da ricevere una valutazione positiva anche da commentatori in genere non particolarmente teneri nei confronti del «Grand Old Party» della politica indiana [W/N 25 dicembre 2010, «India’s Congress in Combat Mode»; W/F 1° gennaio 2011, «Under Siege»].

In effetti, Sonia Gandhi ha già dimostrato in passato, in particolare nel periodo dalla campagna elettorale del 1998 a quella del 2004, quando la situazione del Congresso era ben più difficile di quella della fine del 2010, una grande capacità di chiamare a raccolta e di condurre alla vittoria il partito che guida. Può quindi darsi che, anche in questa occasione, riesca a fare lo stesso. Ma se si osserva la situazione indiana da una prospettiva di lungo periodo, la situazione appare estremamente difficile, non solo e non tanto per il partito, quanto per il paese nel suo complesso. L’India rimane caratterizzata da diseguaglianze socio-economiche impressionanti; ed è vero quanto sostenuto da Jan Drèze, l’illustre economista belga, ma ormai indiano d’adozione a tutti gli effetti, che la classe media indiana ha perso la cognizione di quanto povera la grande maggioranza degli indiani continui ad essere [W/Teh 6 novembre 2020, «‘The middle class has lost track of how poor this country is’»]. E, a rendere più grave la cosa, vi è il fatto che il capitalismo indiano, nonostante i formidabili record positivi registrati dalla crescita a livello macroeconomico, rimanga essenzialmente un «crony capitalism», un «capitalismo degli amiconi», cioè un sistema che funziona in base alla collusione e alla corruzione e dove l’interesse collettivo non ha parte. Gli scandali del 2010, ma in particolare quello delle frequenze 2G; le attività della signora Nira Radia, fra l’altro finalizzate a condizionare la stampa e, attraverso di essa, la politica e l’economia; i rapporti poco chiari fra Palaniappan Chidambaram e gli interessi minerari di compagnie come la Vedanta; il contrappunto fra la retorica dello «sviluppo inclusivo», in teoria aperto a tutti gli strati sociali, anche i più poveri, e la realtà di uno sviluppo finalizzato al benessere di quella minoranza che è formata dalla classe media e dai super ricchi; l’incapacità di intervenire a tutela dei tribali sfruttati dai grandi interessi economici con l’appoggio dello stato sono tutte chiare indicazioni sulla natura del capitalismo indiano e sui suoi gravi limiti. Non è ovviamente che sia solo il capitalismo indiano ad essere in queste condizioni; e non solo nei paesi «emergenti», ma anche in quelli «emersi» (che, in alcuni casi, sembrano ormai sul punto di «immergersi»). Ma rimane il fatto che, alla luce di quanto si è ricordato in questo scritto, i peana in onore della democrazia e della crescita economica indiane, così diffusi a livello internazionale, suonano quanto meno alquanto prematuri e un minimo esagerati.

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Giorgio Borsa

The Founder of Asia Maior

Università di Pavia

The "Cesare Bonacossa" Centre for the Study of Extra-European Peoples

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