La crisi politica in Thailandia
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1. Introduzione
Dal punto di vista politico, per la Thailandia il 2008 si era chiuso con la nomina a primo ministro di Abhisit Vejiajiva. La discussa elezione è stata resa possibile dal cambio di fronte messo in atto dal Friends of Newin Group, in precedenza parte del partito di opposizione People’s Power Party (PPP). Quest’ultimo è l’ennesima incarnazione del Thai Rak Thai (TRT), il partito fondato dall’ex primo ministro Thaksin Shinawatra.
La nomina di Vejiajiva è stata immediatamente contestata dai membri del PPP e dai suoi sostenitori uniti nel movimento United Front of Democracy Against Dictatorship (UDD), noto anche come movimento delle red-shirts (le camicie rosse). La protesta ha assunto rapidamente toni violenti, alimentata dalle dichiarazioni dell’ex premier, ora in esilio, Thaksin Shinawatra. Quest’ultimo, nel marzo 2009, ha rinnovato le sue accuse contro Prem Tinsulanonda, il presidente del consiglio privato del re, di essere il mandante del colpo di stato che, nel 2006, aveva portato alla deposizione dello stesso Thaksin. Quest’ultimo ha indicato oltre a Prem, anche Surayud Chulanont e Chanchai Likhitjittha, membri del consiglio privato del re, quali responsabili della nomina di Abhisit.
Queste accuse sono state smentite dal primo ministro in carica, ma, a partire dal mese di aprile 2009, sono iniziate le proteste di piazza a Bangkok, dove centinaia di manifestanti chiedevano le dimissioni di Abhisit, Prem, Surayud e Chanchai. Thaksin è arrivato ad invocare una rivoluzione popolare per rovesciare la amartayathipatai, ovvero l’oligarchia formata dalla nobiltà, dai grandi burocrati e dai capi delle forze armate. È andato così alimentandosi un processo di polarizzazione politica che ha visto accentuarsi la spaccatura e la conflittualità tra amart (aristocratici o, meglio, oligarchi) e prai (gente comune).
2. Proteste di piazza, violenze e repressione
Una prima fase di disordini si è verificata il 7 aprile 2009, alla vigilia del 14° summit dell’ASEAN, di cui la Thailandia aveva la presidenza di turno. I dimostranti sono riusciti a bloccare l’auto su cui viaggiava Abhisit Vejiajiva, salvatosi grazie all’intervento della sua scorta. Successivamente, nel corso del vertice, a Pattaya, le red-shirts sono riuscite ad irrompere all’interno del resort dove erano già presenti i capi di stato e le delegazioni dei paesi dell’ASEAN. Si è dovuta così organizzarne l’evacuazione con elicotteri dell’esercito, non senza gravi imbarazzi dal punto di vista diplomatico.
La protesta si è poi spostata nella capitale con l’occupazione da parte delle «camicie rosse» di alcuni punti nevralgici della circolazione automobilistica, ciò che ha provocato i primi scontri con le forze dell’ordine. Ad alimentare la tensione sono stati diversi elementi. Da un lato la dichiarazione del primo ministro che definiva i rivoltosi «nemici della nazione», dall’altro l’ex primo ministro Thaksin Shinawatra che, tramite quotidiani interventi televisivi, manifestava il suo sostegno alla protesta, arrivando ad invocare il rovesciamento del governo in carica e, in modo pressante, l’intervento di re Bhumipol.
Il 12 aprile sono stati arrestati i leader delle red-shirts che avevano guidato l’irruzione nella sede che ospitava il summit dell’ASEAN. Nonostante la dichiarazione dello stato di emergenza, i dimostranti hanno continuato a riunirsi e a manifestare in modo violento. Per la seconda volta l’auto su cui viaggiava Abhisit è stata assaltata: sono rimasti feriti il suo autista, il suo segretario e alcuni agenti di scorta. Le proteste sono continuate presso la sede degli uffici del primo ministro ed altri siti istituzionali; i manifestanti sono perfino riusciti a irrompere nel ministero dell’Interno per chiedere il rilascio degli arrestati. Nel corso di questi scontri, oltre a numerosi arresti, vi sarebbero state almeno due vittime; una notizia, per altro, smentita dalle autorità. Gli scontri sono proseguiti con lanci di molotov e di bombe artigianali da parte dei dimostranti, a cui le forze dell’ordine hanno risposto sparando diversi colpi.
Le autorità hanno bloccato le trasmissioni di alcune reti radio e televisive vicine all’UDD.
Gli scontri si sono poi intensificati quando sono stati emessi gli ordini di cattura per Thaksin e per altri 13 capi della protesta. Il giorno successivo, tuttavia, molti di loro si sono consegnati alla polizia, ponendo fine alle violenze. I dimostranti hanno quindi concordato la conclusione pacifica della protesta e sono stati fatti rientrare nelle province di origine con autobus messi a disposizione dal governo. Successivamente è stato ritirato il passaporto ordinario di Thaksin e sono state emesse dozzine di mandati di arresto per altri leader dell’UDD. Il 24 aprile è stato revocato lo stato d’emergenza, ma non il decreto di censura dei mezzi radiotelevisivi.
Ha avuto così inizio la polemica, alimentata dai rappresentanti dell’UDD, che hanno accusato il governo di usare parametri diversi nei confronti degli oppositori. In proposito si è ricordato come nessuno dei rappresentanti del People’s Alliance for Democracy (PAD), noti anche come yellow-shirt (camicie gialle) e protagonisti del blocco degli aeroporti nel 2008, sia stato arrestato o processato. Anche l’Asian Human Rights Commission (AHRC) ha messo in evidenza come la differenza di trattamento delle yellow-shirts e delle red-shirts avrebbe finito con l’incoraggiare gli oppositori del governo a fare ricorso sempre di più a mezzi illegali [W/J 23 aprile 2009 «Thai courts use of legal double standards encourage extralegal means by opposition», §§2-3].
La conclusione di questa fase di scontri di piazza ha avuto uno strascico di polemiche con accuse reciproche di omicidi perpetrati da uomini dell’esercito o da rappresentanti delle red-shirts. Il comandante dell’esercito, Anupong Pochinda, è arrivato a giurare sulla sua vita che nessun morto era stato provocato dalle operazioni dei militari e delle forze di sicurezza. L’uccisione di un rappresentante dell’UDD nel corso degli scontri è risultata essere stata provocata da un’arma non in dotazione all’esercito. Vero è che due corpi di dimostranti sono stati trovati nel fiume Chao Praya, con le mani legate dietro la schiena e con segni evidenti di brutali percosse; ma le autorità hanno affermato che non fosse accertata la motivazione politica di questi omicidi. Il governo ha, invece, accusato le red-shirts di aver ucciso due civili nel corso degli scontri nella capitale, nel distretto di Din Daeng.
La Bangkok Metropolitan Admnistration ha calcolato che i danni provocati dalle proteste ammontavano a circa dieci milioni di bhat (300.000 dollari) [W/EM «Bt10 million BMA property damage from protest» §1]. Tra le altre conseguenze dei disordini, c’è stato anche l’abbassamento del rating della Thailandia da parte di Standard & Poor’s da «A» a «A−» [W/SMH 14 aprile 2009, «S&P lowers Thailand credit rating»].
Il 17 aprile uno dei principali leader del PAD, Sondhi Limthongkul, è stato vittima di un gravissimo attentato. Nonostante che contro di lui siano stati sparati oltre cento colpi con fucile d’assalto M-16 e di mitraglietta AK-47 (meglio nota come kalashnikov), Sondhi, pur gravemente ferito alla testa, è rimasto in piedi e lucido, ed è sopravvissuto dopo un delicato intervento chirurgico.
Si è trattato di un attentato ben organizzato, con un imponente fronte di fuoco, che ha reso credibili i sospetti di un coinvolgimento di elementi legati ad ambienti militari. Inizialmente è stata diffusa la notizia, poi smentita, che i numeri di serie di alcuni proiettili appartenessero ad una partita in dotazione all’esercito.
Il figlio di Sondhi ha accusato alcune fazioni interne all’esercito e alla compagine di governo di essere dietro al tentativo di omicidio e si è detto convinto che stessero preparando un nuovo colpo di stato. Dal canto suo, il ministro degli Esteri, Kasit Piromya, ha ipotizzato che il mandante sia stato Thaksin Shinawatra.
L’ex primo ministro, nonostante che all’indomani del colpo di stato del 2006 avesse annunciato il suo ritiro dalla politica, di fatto non ha mai rinunciato a svolgere il ruolo di leader politico. Forte del suo ascendente carismatico sulla popolazione rurale e del suo potere economico sui leader politici che hanno fondato e guidato i partiti nati dalle ceneri del TRT, Shinawatra va ritenuto il principale responsabile dei disordini e della condizione di instabilità in cui versa il paese.
All’inizio del 2010 la magistratura ha disposto il sequestro dei beni di Thaksin, pari a 76 miliardi di bhat. Il provvedimento era giustificato dall’accusa di aver accumulato un tale capitale grazie alla sua attività politica. Ovviamente lo scopo di una tale misura era quello di tagliare quanto più possibile il principale canale di finanziamento con cui sono state sostenute le proteste delle red-shirts. L’attesa del verdetto definitivo è stata caricata di enorme tensione ed aspettativa. I principali quotidiani in lingua inglese, «Bangkok Post» e «The Nation», nella versione on-line nella home-page proponevano il conto alla rovescia dei giorni che mancavano al «giorno del giudizio».
Il 26 febbraio è arrivata la decisione della corte suprema, che stabiliva il sequestro definitivo di 46 miliardi di bhat, ovvero della somma di denaro che Thaksin avrebbe effettivamente guadagnato dopo il suo ingresso in politica. Nonostante che la sentenza potesse essere definita salomonica, il giorno successivo si sono verificati degli attentati a tre filiali della Bangkok Bank dove erano depositati i conti di Thaksin. La sentenza, inoltre, è stata utilizzata come pretesto per la mobilitazione di decine di migliaia di sostenitori del miliardario ex primo ministro.
Così ai primi di marzo le red-shirts hanno iniziato a calare su Bangkok soprattutto dalle regioni del Nord e del Nord-est, dando avvio a due mesi di occupazione dell’area di Ratchaprasong, quartiere del commercio di lusso e cuore finanziario ed economico della capitale.
Il 14 marzo si è svolta la più imponente manifestazione della storia tailandese, in modo assolutamente pacifico e non violento. Alla base di questa ennesima contestazione di piazza vi era la richiesta di dimissioni del governo e di nuove elezioni politiche entro tre mesi, richiesta che il governo inizialmente ha rigettato senza alcun margine di trattativa. Successivamente il primo ministro Abhisit ha proposto una road-map per la pacificazione, in base alla quale le elezioni avrebbero potuto tenersi il 14 novembre 2010.
Gli organi di governo, nel riportare le notizie relative alla manifestazione, hanno ridimensionato l’evento ed hanno riferito di soli 25.000 partecipanti. L’UDD ha reagito con l’attuazione di clamorose forme di protesta, in particolare con il «versamento del sangue». Dopo aver raccolto la donazione di migliaia di dimostranti, centinaia di litri di sangue sono stati versati davanti alle abitazioni del primo ministro Abhisit e di altri esponenti politici. Seppure non violenta, si è trattato di una forma di protesta di forte impatto e gravata di atmosfere lugubri e evocative di riti di magia nera.
La situazione è precipitata il 10 aprile, dopo che le red-shirts hanno occupato la sede di una stazione televisiva a Bangkok e hanno chiesto ad Abhisit di impegnarsi a riportare il paese alla normalità. L’11 aprile sono iniziati gli scontri tra i manifestanti e l’esercito, che avrebbero provocato circa 20 morti, tra cui un militare, saliti a 24 il 15 aprile.
La tensione ha continuato a crescere anche perché negli stessi giorni iniziavano a svolgersi manifestazioni a favore del governo.
Sempre a Bangkok, il 22 aprile vi sono state alcune esplosioni che hanno provocato un morto e diversi feriti. Il governo ha accusato le red-shirts di essere responsabili di questo attentato, ma l’accusa è stata respinta con forza dai leader della protesta. A loro volta, costoro hanno avanzato il sospetto che si fosse trattato di un’azione organizzata dallo stesso governo per giustificare l’uso della violenza da parte dell’esercito contro i manifestanti pacifici.
Il 23 aprile uno dei leader delle red-shirts, Veera Musikapong, ha proposto di porre fine alle proteste se il governo avesse accettato di dimettersi entro 30 giorni e avesse indetto nuove elezioni immediatamente dopo. Questa proposta poteva essere letta come un’apertura rispetto alle richieste precedenti di scioglimento immediato del parlamento. Ma, dopo alcuni colloqui, Abhisit ha rigettato questa offerta con la motivazione che le red-shirts stavano usando violenza e intimidazione. Inoltre, secondo il primo ministro, lo scioglimento del parlamento doveva essere finalizzato al bene dell’intero paese e non solo di una parte.
Altri scontri si sono verificati il 28 aprile nella zona Nord di Bangkok: un militare è rimasto ucciso dal «fuoco amico» e sono stati feriti 16 dimostranti.
Il 3 maggio Abhisit ha annunciato una road-map per la riconciliazione, in cui proponeva nuove elezioni il 14 novembre, mentre la data delle dimissioni del governo sarebbe stata definita in un secondo momento. Questa proposta sembrava segnare un punto di svolta nella grave situazione di stallo in cui si trovava il governo. Fin da subito l’UDD ha accettato di partecipare ai negoziati, che si sono svolti in diretta televisiva. È sembrato, dunque, che si potesse delineare una vittoria per il movimento delle red-shirts; le trattative, tuttavia, si sono risolte in un fallimento.
È di difficile attribuzione la responsabilità del mancato accordo. Sicuramente quanti hanno partecipato in rappresentanza dell’UDD ai negoziati hanno compiuto degli errori di valutazione. Infatti, dopo quasi due mesi di occupazione del distretto economico di Bangkok, nelle strade erano rimasti i più fanatici e i più disperati fra quei cittadini che, dalla metà di marzo, erano arrivati dal Nord e dal Nord-est del paese. La percezione è che i leader dell’UDD che stavano conducendo le trattative non avessero più il controllo della protesta. I dimostranti, a quel punto, hanno avanzato la richiesta che il primo ministro venisse arrestato per aver causato la morte di 25 persone nel corso delle proteste di aprile.
Da parte del governo vi è stata eccessiva rigidità e mancanza di chiarezza circa la data in cui l’esecutivo si sarebbe potuto dimettere.
Il 13 maggio, di fronte al rifiuto di porre fine alla contestazione e all’occupazione delle strade, il governo ha ritirato la proposta di indire le elezioni a novembre.
Il giorno successivo, la polizia e unità dell’esercito hanno circondato e isolato il principale accampamento dei dimostranti, incontrando una forte resistenza. Nel corso di questi scontri è accaduto uno degli episodi più oscuri della lunga protesta, ovvero l’uccisione dell’ex generale dell’esercito Khattiya Sawasdipol, noto come seh daeng (comandante rosso). Il generale Khattya dopo aver lasciato l’esercito si era assunto il ruolo di consigliere militare delle red-shirts e rappresentava l’ala più radicale del movimento, tanto da aver accusato i leader che stavano conducendo i negoziati di essere troppo morbidi.
Nel corso degli scontri del 14 maggio, Seh Daeng è stato colpito da un cecchino mentre rilasciava un’intervista al New York Times, decedendo il 17 maggio. Episodio in cui sembra accertata la responsabilità di fantomatici «uomini in nero», membri probabilmente di forze speciali la cui appartenenza non è certa.
Gli scontri iniziati il 14 maggio sono proseguiti con diversa intensità fino al 18 maggio. Infine, il 19 maggio l’esercito ha lanciato l’assalto definitivo. I leader dell’UDD si sono consegnati alla polizia nel tentativo di evitare un bagno di sangue. Ma la maggioranza delle red-shirts li ha contestati per questa scelta e si è rifiutata di porre fine alla protesta e di arrendersi alle autorità. Senza più alcuna guida è iniziata una sorta di campagna di terrore condotta dalle red-shirts e attuata incendiando le sedi della Borsa, di numerose banche, di una stazione televisiva, dell’ONCB (Office of Narcotic Control Board) e, infine, di due centri commerciali, tra i quali il famosissimo Central World, simbolo per eccellenza della vocazione consumistica del paese. In totale, gli edifici dati alle fiamme, con una scelta non casuale ma mirata, sono stati 35. La stima dei danni delle proteste del 2010 è stata calcolata in 40 miliardi di bhat (equivalenti a circa 1,25 miliardi di dollari americani [W/BP 21 maggio 2010, «Building damage toll up to B40bn»; W/TBN 21 maggio 2010, «Bangkok Building damage estimated $1.25 billion»].
Le cronache hanno registrato scontri anche in alcune province del Nord e del Nord-est, zone di origine della maggior parte dei dimostranti. Il conflitto però non ha mai raggiunto le dimensioni di una guerra civile, come invocato da Thaksin dal suo rifugio in Montenegro. Successivamente l’ex primo ministro si è affrettato a smentire perfino di essere il leader del movimento delle red-shirts.
Il numero complessivo delle vittime, il 22 maggio, era di 85 morti e di circa 1.400 feriti. Nel corso degli scontri del 19 maggio è morto anche il fotografo italiano Fabio Polenghi, ucciso, secondo la polizia, da una granata lanciata dalle red-shirts; ma, in realtà, da un proiettile ad alta velocità, come accertato dall’autopsia.
3. La monarchia e la successione: dal sovrano divinizzato al principe demonizzato
L’instabilità del paese è stata accentuata dalla difficile condizione in cui è venuta a trovarsi l’istituzione monarchica. Grazie all’immagine sostenuta in patria dalla propaganda, la monarchia è considerata un’istituzione quasi divina. Ed anche il passaggio, nel 1932, dalla monarchia assoluta a quella costituzionale viene riportato come una concessione di re Vajiravudh. In anni recenti però alcuni autori occidentali, i cui scritti sono banditi in Thailandia, hanno rimesso in discussione questa versione ufficiale e soprattutto la biografia e l’operato di re Bhumipol. In particolare Paul M. Handley, sostiene che al momento della sua incoronazione la monarchia fosse ormai un’istituzione quasi superflua. Ma, nel corso del suo lunghissimo regno, re Bhumipol è riuscito trasformarla in uno dei tre pilastri della società tailandese, insieme a religione e nazione [Handley 2006]. Re Bhumipol, nei momenti di crisi e di vuoto di potere, ha saputo svolgere il ruolo di garante dell’unità nazionale, anche grazie alla stima incondizionata di cui ha sempre goduto. Ma durante la crisi qui esaminata, le condizioni di salute del monarca, ricoverato in ospedale da più di un anno, non gli hanno consentito di intervenire.
Rimane il fatto che, nonostante che gli sia stato riconosciuto ancora in vita il titolo onorifico di «grande» (onorificenza attribuita ad alcuni re, quali Rama I e Rama V, solitamente dopo la morte), re Bhumipol non è riuscito a dare una soluzione politicamente accettabile ad un problema di cruciale importanza: quello rappresentato dal fatto che l’attuale erede al trono è universalmente considerato dall’opinione pubblica come indegno di occupare il trono.
In Thailandia nessun cittadino potrebbe mai osare criticare re Bhumipol, non solo a causa della severa legge di lesa maestà ma ancor più per un sentimento di rispetto, radicato grazie ad un’abile e costante operazione di comunicazione e di propaganda monarchica, che tende a magnificare l’attività del re. Tuttavia, per quanto riguarda l’erede al trono, il principe Maha Vajiralongkorn, l’apparato di corte non è riuscito a creare un’immagine positiva.
Qualsiasi tailandese è a conoscenza di almeno una vicenda illegale in cui è stato coinvolto il principe. E, vere o no che siano le vicende illegali di cui è imputato l’erede al trono, esse rivelano un diffuso sentimento di disistima nei confronti di Maha Vajiralongkorn. Si è arrivati al punto che l’antropologo Andrew Walker ha potuto sostenere che, nella società tailandese, parlare in termini positivi del principe è ormai diventato un tabù [Walker 2010, §9]. Secondo Walker, questo tabù sarebbe stato infranto da Thaksin Shinawatra quando, nel corso di un intervista rilasciata nel 2009, ha espresso una serie di giudizi positivi nei confronti dell’erede al trono. Ma non si è trattato certo di giudizi disinteressati, come poi confermato dalle rivelazioni del sito internet WikiLeaks [Ji Ungpakorn 2010, §2]. Nel 2008, infatti, nel corso di alcune conversazioni tra l’ambasciatore statunitense Sedney e i due consiglieri privati del re, Prem Tinsulanonda e Siddhi, è emersa la loro preoccupazione nei confronti della pericolosa relazione tra il principe e Thaksin. Secondo i due consiglieri del re, infatti, il ricco ex primo ministro si sarebbe fatto carico dei debiti di gioco del principe per conquistarsene i favori, ottenendone la promessa di poter tornare in Thailandia dopo la successione. Sempre nel corso di queste conversazioni i due consiglieri hanno spiegato all’ambasciatore che la nomina dell’erede al trono difficilmente potrebbe essere revocata, ma che, se il principe morisse o fosse dichiarato incapace, allora potrebbe salire al trono la principessa Sirindhorn, amata e stimata dalla totalità della popolazione.
In proposito vale la pena di ricordare che, a causa della immensa popolarità della principessa Sirindhorn, alla legge sulla successione, datata 1924 (prima, cioè, dell’istituzione della monarchia costituzionale), sono stati apportati alcuni cambiamenti in occasione delle carte costituzionali adottate nel corso degli anni [Aryan 2008, p. 12]. In particolare la Costituzione del 1997 ha previsto, all’articolo 22, che la riforma della legge di successione sia prerogativa del re e, all’articolo 23, che, in caso di trono vacante, senza che il re abbia nominato il suo erede, il consiglio privato può presentare un nominativo per la successione. Di cruciale importanza è il fatto che tale erede può essere una principessa [W/C 1997]. Questi articoli sono stati riportati integralmente anche nella costituzione del 2007 [W/C 2007].
In ogni caso, quello che è stato posto in evidenza dalle conversazioni rivelate da WikiLeaks è che il Regno di Thailandia, in un futuro ormai prossimo, potrebbe trovarsi ad attraversare una fase di disastrosa instabilità, peggiore di quanto stia vivendo da quattro anni ad oggi.
4. Il troppo debole governo di Abhisit
Il governo guidato da Abhisit ha potuto formarsi grazie all’appoggio del Friends of Newin Group, una corrente del People’s Power Party che, nel 2008, aveva clamorosamente cambiato schieramento, passando dall’opposizione al sostegno del governo. Un esecutivo nato con questi presupposti è sicuramente caratterizzato da una grave fragilità politica.
È altrettanto evidente che alla fine del 2010, il primo ministro non avesse nessuna intenzione di dimettersi e di indire nuove elezioni come aveva indicato a marzo nella road-map per la riconciliazione. Il premier è in parte giustificato dalla necessità di raggiungere una maggiore stabilità per il paese, ma l’evidenza che alla guida del governo vi fosse un partito di minoranza ha costituito un elemento di eccessiva debolezza.
Nel corso del 2008, due capi di governo erano stati costretti alle dimissioni a causa di decisioni della corte costituzionale. A fine novembre 2010, la suprema corte era stata chiamata a giudicare sull’impiego scorretto di fondi nella precedente campagna elettorale da parte del Democrat Party (DP), il partito del primo ministro. Se la sentenza avesse riconosciuto le tesi dell’accusa, il partito sarebbe stato sciolto e i suoi capi, incluso Abhisit, avrebbero dovuto essere banditi dall’attività politica per cinque anni. Ma la corte ha respinto il ricorso per errori procedurali e mancanza di documentazione.
Questa decisione ha definitivamente convinto i sostenitori delle red-shirts della non imparzialità della corte. Già nei mesi precedenti erano stati diffusi video e notizie circa tentativi di corruzione e pressione sui giudici da parte dei rappresentanti del DP. A parte questo, un dato sembra accertato: dall’annullamento delle elezioni del 2005, alle decisioni del 2008, che hanno costretto alle dimissioni due primi ministri, al sequestro dei conti di Thaksin, tutte le decisioni della corte sono stati sfavorevoli alla parte politica vicina al deposto capo di governo.
5. Situazione economica
L’instabilità politica ha parzialmente condizionato l’andamento dell’economia, oltretutto in un contesto di crisi economica mondiale. Ma, in linea generale, dal punto di vista economico la Thailandia ha continuato a crescere e la domanda sia interna che esterna è aumentata soprattutto nel secondo trimestre del 2010. A scendere in picchiata nello stesso periodo è stata la voce del turismo a causa delle turbolenze politiche. Il calo del settore è stato del 17%, tanto che ha portato ad una lieve contrazione del PIL [W/WB Thailand economic monitor 2010]. Il deficit e l’inflazione, inferiori a quanto previsto, sono risultati gestibili anche perché le politiche di aggiustamento fiscale e monetario non hanno compromesso la stabilità macroeconomica.
Il disavanzo fiscale è stato molto più contenuto di quanto inizialmente temuto.
Vi sono stati interventi statali di stimolo all’economia, come il «thai khem kaeng» (Thailandia forte) uno schema di investimenti pubblici in 14 aree del paese, per un totale di 200 miliardi di bhat (circa 5 miliardi di euro). Ciò nonostante, grazie ad un soddisfacente gettito tributario, il disavanzo tra le entrate erariali e la spesa pubblica è stato pari a solo l’1,9% del PIL [W/WB ibidem].
Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) ha riconosciuto che l’economia tailandese ha ampiamente superato la crisi economica, anche per le solide politiche di risposta attuate dalle autorità di governo [W/IMF «IMF executive board concludes artcicle IV section 10 consultation with Thailand»]. L’FMI ha sottolineato che la ripresa delle esportazioni ha avuto come conseguenza anche un recupero della domanda interna, con una espansione sia degli investimenti sia dei consumi. Nel suo rapporto, l’FMI spiega che questo recupero è stato possibile grazie alla solida struttura dell’economia del paese. Ma l’FMI non ha mancato di sottolineare che la Thailandia debba ritrovare una normalità della condizione politica per assicurare il pieno recupero economico nonostante il clima globale di incertezza.
6. Diritti umani
Dal punto di vista del rispetto dei diritti umani, il governo di Abhisit Vejivajiva è sembrato rimanere nel solco dei suoi predecessori. In primo luogo, come conseguenza della dichiarazione dello stato di emergenza, il governo ha imposto forti restrizioni alla libertà di stampa e di informazione. Le autorità hanno chiuso oltre 18.000 siti web con l’accusa di promuovere sentimenti anti monarchici e di minacciare la sicurezza del paese.
L’accusa di lesa maestà è stata utilizzata contro cittadini tailandesi e stranieri, giornalisti, accademici e blogger, alcuni dei quali hanno poi scelto di lasciare la Thailandia e non hanno potuto farvi ritorno. Chi è rimasto ha subìto condanne assolutamente sproporzionate. I cittadini stranieri dopo la condanna hanno potuto ottenere la grazia. Per alcuni commenti pubblicati su un sito internet, un cittadino tailandese è stato condannato a dieci anni di carcere in base all’articolo 112 del Computer Crimes Act. Una militante delle red-shirts ha avuto una condanna a 18 anni di prigione (che sta scontando in isolamento) per aver pronunciato un discorso durante le manifestazioni del 2009. La direttrice della testata on-line Prachatai è stata arrestata e il suo ufficio perquisito, sempre con l’accusa di aver violato il Computer Crimes Act. Altri cittadini sono stati arrestati per aver semplicemente pubblicato la traduzione di notizie, riprese da testate internazionali, riguardanti lo stato di salute del re [W/HRW].
Il primo ministro si era impegnato a riaprire le indagini sugli abusi perpetrati sotto il governo di Thaksin durante la cosiddetta guerra alle droghe del 2003, in cui erano state uccise 2.819 persone, senza alcun processo. Ma sono stati fatti ben pochi progressi per individuare i responsabili e per assicurarli alla giustizia [W/AI].
Dal 2003 ogni anno tra i 10 e 15.000 tossicodipendenti sono inviati in campi militari ed obbligati a sottoporsi ad un trattamento di recupero basato su metodi militari [W/HRW].
Sono rimaste senza risultati anche le indagini per assicurare alla giustizia i responsabili degli abusi commessi nel 2004 dall’esercito nelle province meridionali, che avevano provocato la strage nella moschea Al-Furquan di Narathiwat, o, ancora, di coloro che non avevano impedito a 75 detenuti di morire asfissiati mentre venivano trasportati nella caserma di Tak Bai [W/HRW].
Nel suo rapporto del 2009, l’AHRC ha messo in evidenza che nel sistema legale tailandese esiste un controllo politico sulla magistratura. Questo avrebbe dato origine al già ricordato «doppio standard di giudizio», applicato nei confronti del PAD e dell’UDD. I leader delle red-shirts, infatti, sono stati arrestati o costretti alla fuga, mentre nessun leader delle yellow-shirts è stato processato [W/AHRC].
Dopo il bagno di sangue del 19 maggio 2010, Thaksin Shinawatra ha annunciato di voler intentare una causa contro il governo tailandese presso la corte penale internazionale dell’Aia per crimini contro l’umanità. Diversi opinionisti non hanno mancato di evidenziare l’assurdità del fatto che proprio chi si era reso responsabile dell’uccisione di almeno 3.000 cittadini volesse rivolgersi all’Aia [ad es. W/MDT 4 novembre 2010, «Is Thaksin Shinawatra abusing the International Criminal Court?»].
Nel mese di novembre del 2009 è venuto alla ribalta il caso dei hmong. I hmong sono stati definiti gli «alleati dimenticati degli Stati Uniti» in quanto, durante la guerra tra gli Stati Uniti e il Vietnam, si erano schierati al fianco degli americani. Nel 1975, con la vittoria dei comunisti del Pathet Lao, decine di migliaia di hmong avevano preferito abbandonare il Laos, dove erano vittime di discriminazione e repressione. I più fortunati erano riusciti a raggiungere gli Stati Uniti, mentre gli altri si erano fermati in Thailandia, paese che non ha mai firmato la convenzione dell’ONU per i rifugiati del 1951. Nel corso del 2009 è venuto alla luce che il governo della Thailandia aveva deciso di deportare i rifugiati hmong in Laos, nonostante «il serio pericolo di persecuzioni ad opera delle autorità laotiane che fino ad oggi non hanno perdonato i hmong per essere stati i devoti alleati degli Stati Uniti durante la guerra del Vietnam» (come affermato da Joel R. Charny, il presidente di Refugees International di Washington [W/NYT 27 dicembre 2009, «Thailand Begins Repatriation of Hmongs to Laos»]. Tale deportazione ha provocato le proteste di molte ONG che operano in difesa dei diritti umani. Il primo ministro Abhisit Vejjajjva si è difeso da tali accuse asserendo che non si è trattato di espulsioni ma di una scelta volontaria dei hmong di ritornare in patria. Ma a smentire la parole del primo ministro tailandese è il fatto che non sia stato consentito a nessun operatore umanitario di contattare le vittime della deportazione.
Subito dopo le elezioni del 7 novembre 2010 in Myanmar, circa 20.000 ribelli appartenenti a minoranze etniche hanno attraversato il confine e si sono riversati in Thailandia per sfuggire alle persecuzioni perpetrate nel loro paese. Ma da parte delle autorità tailandesi non c’è stata disponibilità ad accoglierli e sono stati tutti rimpatriati nell’arco di pochi giorni.
7. Relazioni internazionali
Le relazioni con la Cambogia, dopo una fase particolarmente critica nel 2008 [AM 2008], hanno visto una breve fase di distensione. Questa ha avuto termine all’inizio del novembre 2009, a seguito della notizia che Thaksin Shinawatra era stato nominato consigliere economico sia del governo cambogiano sia del primo ministro [W/G 5 novembre 2009, «Shinawatra stokes tensions…». Tale decisione ha portato alla rottura delle relazioni diplomatiche fra i due paesi.
Inoltre, ha creato ulteriori tensioni la notizia, praticamente certa, della presenza dell’ex primo ministro in Cambogia durante le contestazioni di aprile-maggio 2010 a Bangkok. Qui Takhsin si teneva pronto a rientrare in Thailandia qualora si fossero verificate le condizioni favorevoli.
Nell’agosto del 2010, Abhisit, nel corso di una trasmissione televisiva, ha dichiarato che il suo governo ha fatto del suo meglio per evitare un confronto armato con la Cambogia. Ma ha aggiunto che, qualora apparisse inevitabile un conflitto di confine, le forze armate e le agenzie per la sicurezza sarebbero state pronte a difendere il paese. Questa dichiarazione, secondo l’analista Pavin Chachavalpongpun [W/BP 18 agosto 2010, « Thai-Cambodian row does neither any good»] ha dato motivo al primo ministro cambogiano, Hun Sen, di rivolgersi alle Nazioni Unite, denunciando come la Cambogia fosse stata minacciata dalla Thailandia. La reazione di Hun Sen ha indicato che la Cambogia sperasse di internazionalizzare la questione per mettere in imbarazzo la Thailandia di fronte alla comunità internazionale [Ibidem, §§ 6-7].
Una situazione di particolare criticità si è verificata con gli Stati Uniti e con la Russia a seguito della richiesta di estradizione del trafficante d’armi russo Viktor Bout, arrestato a Bangkok nel 2008. Per mesi si è dibattuto sulla opportunità della estradizione dell’ex agente del KGB che, con una discussa decisione, è stato poi trasferito negli USA. D’altra parte la Thailandia è stata da sempre un fedele alleato degli Stati Uniti, tanto da aver ospitato anche alcune prigioni «segrete», in cui sono stati detenuti e torturati i sospettati di terrorismo.
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