Il Kirghizistan tra crisi dello Stato e normalizzazione della violenza
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1. Introduzione
Il 2010 è stato un anno particolarmente violento per il Kirghizistan, piccola repubblica dell’Asia Centrale post sovietica. Proteste popolari causate dagli aumenti delle tariffe per il metano e per l’energia elettrica ed una coalizione alquanto eterogenea dell’élite hanno portato al secondo cambio di regime in cinque anni. A differenza del predecessore, Askar Akaev, che aveva lasciato il potere in modo pacifico nel 2005, l’ex presidente Kurmanbek Bakiev e i suoi fedelissimi (in gran parte familiari stretti) hanno opposto resistenza, sia nella capitale Bishkek che nel natio Sud del paese. La transizione è stata accompagnata nella primavera del 2010 da scontri violenti, che hanno causato circa 80 morti e centinaia di feriti.
Il governo provvisorio guidato da Roza Otunbaeva si è dimostrato fin da subito diviso e poco coerente. Inoltre, il nuovo esecutivo ha palesato gravi difficoltà nel mantenere il controllo del paese, specialmente nelle regioni meridionali, fedeli al regime precedente. La situazione è precipitata nel giugno 2010, quando si è verificata una serie di scontri violenti tra kirghizi e uzbeki. Quelli che erano scontri di natura politica hanno assunto toni etnici. Questo non perché i rapporti tra le due comunità più numerose del paese, i kirghizi e gli uzbeki, siano strutturalmente volti al conflitto; la minoranza uzbeka, oppressa durante l’amministrazione Bakiev, ha fin da subito appoggiato il nuovo governo. Tale mossa è stata strumentalizzata dalle fazioni fedeli a Bakiev, che hanno fatto del nazionalismo il collante dell’opposizione alle nuove autorità.
Una disintegrazione dello stato in Kirghizistan porterebbe alla quasi certa criminalizzazione delle regioni meridionali, dove figure collegate alla criminalità organizzata peraltro già operano. La costituzione, introdotta a fine giugno, e le elezioni parlamentari dell’ottobre 2010 non sono stati eventi spartiacque tra autoritarismo e democratizzazione. Dopo due mesi di trattative, tre forze politiche alquanto diverse fra loro hanno finalmente dato vita ad un governo di coalizione, che si annuncia debole e fin troppo eterogeneo.
Al fine di mettere in prospettiva gli avvenimenti appena ricordati, il presente contributo è strutturato come segue. Lo studio inizia con una breve panoramica sulla fase dello state-building del Kirghizistan post sovietico, soffermandosi sulle caratteristiche delle amministrazioni di Akaev e Bakiev. La sezione seguente analizza le cause che hanno portato ai tragici eventi del 2010. Nella seconda parte del saggio vengono discusse le relazioni internazionali del Kirghizistan. Verrà dato particolare rilievo alle relazioni con il vicino Uzbekistan, nonché al ruolo della Russia e degli Stati Uniti nella politica estera e nell’economia del Kirghizistan.
Incapace di reggersi sulle proprie forze, il Kirghizistan dipende ormai completamente dal sostegno internazionale. Le elezioni parlamentari dell’ottobre 2010 preannunciano una vita di coalizione non facile, in una situazione politica alquanto volatile. Al momento lo scenario più probabile è quello di un progressivo indebolimento dello stato.
2. Da un pluralismo inatteso a una involuzione autoritaria: i regimi di Akaev (1990-2005) e Bakiev (2005-2010)
La maggior parte del territorio che costituisce oggi il Kirghizistan era stata ceduta dalla dinastia cinese Qing alla Russia zarista nella seconda metà del XIX secolo. L’annessione era stata poi completata nel 1876. Con l’eccezione di un breve periodo di indipendenza, a seguito della rivoluzione d’ottobre nel 1917, il controllo sovietico era stato ristabilito già nel 1919. La regione autonoma dei kirghizi era stata dapprima creata all’interno della Repubblica Sovietica Socialista Federativa Russa. Nel 1936, al termine del processo di delimitazione territoriale in Asia Centrale, alla Kirghizia (come era nota in epoca sovietica) era stato concesso il rango di repubblica dell’Unione, di rango pari, per esempio, a quello della Russia e dei vicini Uzbekistan e Kazakistan. La sedentarizzazioni delle tribù nomadi kirghize, la formazione di una coscienza nazionale in una repubblica multietnica e lo sviluppo di una base industriale hanno costituito le sfide principali in epoca sovietica. In quel periodo il Kirghizistan era una repubblica fedele a Mosca, isolata e povera, priva di quelle risorse naturali (gas, petrolio) e di cotone che rendevano invece il Turkmenistan e l’Uzbekistan di importanza strategica per la Russia. Le risorse idriche del Kirghizistan e del vicino Tagikistan erano in gran parte utilizzate nell’industria del cotone nei paesi confinanti. La questione delle risorse era tutto sommato di limitato significato pratico in quanto le economie repubblicane erano integrate nell’economia centrale russa. Accesso, gestione e distribuzione delle risorse sono stati politicizzati verso la fine degli anni Ottanta e ancor più dopo l’indipendenza. Quando il declino economico aveva cominciato ad alterare il sistema di stratificazione etnica del lavoro (secondo cui, per esempio, in Kirghizistan gli uzbeki occupavano il settore del commercio, mentre i kirghizi dominavano strutture statali e di sicurezza e le popolazioni slave lavoravano nelle industrie), le varie comunità etniche del Kirghizistan hanno iniziato a competere per le risorse, sempre più scarse.
Nel periodo successivo all’indipendenza, il presidente Askar Akaev, originario del Nord del paese, si è distinto come uno dei leader più riformisti dell’intero spazio post sovietico. Circondato da stati autoritari (Cina, Uzbekistan e Kazakistan) o in preda a guerre civili (Afghanistan e Tagikistan), privo di risorse (a parte l’acqua), isolato a livello di trasporti e comunicazioni, il paese appariva come un candidato alquanto improbabile alla democratizzazione. Eppure, nei primi anni Novanta il Kirghizistan è diventato la prima repubblica centroasiatica a liberalizzare il proprio sistema politico e ad introdurre l’economia di mercato. Fino a metà anni Novanta l’immagine dell’ «isola di democrazia in Asia Centrale», per usare l’espressione dell’allora sottosegretario di Stato statunitense Strobe Talbott, pareva giustificata alla luce delle azioni intraprese dall’amministrazione di Akaev. Il Kirghizistan era uscito rapidamente dalla zona del rublo e aveva introdotto una sua valuta, il som. Imprese statali improduttive erano state privatizzate o chiuse. Primo fra i paesi post sovietici, il Kirghizistan venne ammesso all’organizzazione mondiale del commercio nel 1996.
A livello politico le due caratteristiche principali del paese erano una società civile in fermento e integrata nel sistema della organizzazioni non governative internazionali (e anche dipendente da esso) e la presenza di un sistema politico tutto sommato pluralista. Le incertezze circa la tenuta dello stato non mancavano. Le principali linee di frattura all’interno del paese erano (e rimangono) due. Innanzitutto vanno considerate le divisioni tra Nord e Sud del paese: identità regionali e tribali sono importanti per i kirghizi. Il Sud del paese, nella valle di Fergana, è molto più tradizionalista e religioso, mentre il Nord risente molto di più dell’influenza russa. Appartenenze regionali e tribali non sono semplicemente questioni identitarie, ma determinano alleanze politiche e distribuzione di potere. Le autorità sovietiche, incapaci di eliminarle, le utilizzavano in maniera strumentale, alternando nord e sud al vertice politico della repubblica. In secondo luogo, la presenza di minoranze cospicue e compatte nel Nord del paese (russi, circa il 10% della popolazione totale) e nelle regioni meridionali (uzbeki, 14%) ha influito sui processi di formazione dello stato e della nazione. Negli anni successivi all’indipendenza, i russi e le popolazioni europee sono emigrati in massa, anche a causa del timore che in un Kirghizistan indipendente i kirghizi volessero occupare una posizione di privilegio rispetto alle altre comunità. Gli uzbeki, tradizionalmente al controllo del settore commerciale e tagliati fuori dalla politica nazionale, si trovavano fra due fuochi, ossia un vicino Uzbekistan autoritario e un Kirghizistan più pluralistico, nel quale si ritrovavano però cittadini di seconda categoria [Fumagalli 2007b].
Finché è stato al potere, Askar Akaev è riuscito a evitare che queste divisioni venissero politicizzate e che sfociassero in un conflitto violento, come quello tra uzbeki e kirghizi, poi verificatosi nel giugno 1990. Mentre gli equilibri politici si stavano lentamente spostando in favore dei kirghizi, Akaev si è dimostrato disponibile a compromessi tattici con le minoranze etniche. Tali misure, raramente efficaci fino in fondo, hanno però contribuito a mantenere le potenziali tensioni etniche sotto controllo.
L’indipendenza è rimasta associata a un declino drammatico della produzione industriale e agricola. La disoccupazione dilagante e la mancanza di prospettive hanno portato negli anni a nuovi flussi migratori, specialmente verso la Russia. Declino economico e instabilità politica hanno reso la popolazione vulnerabile alla seduzione ideologica da parte di gruppi estremisti, sia religiosi che etnici. L’elemento di forza di Askar Akaev, ossia l’essere un candidato di compromesso e moderato, è diventato ben presto la sua principale debolezza. Tra il 1993 e il 1994, Akaev ha concentrato maggior potere nella presidenza del paese, togliendolo al governo, al parlamento e agli organi locali. I governatori delle province (akim), in precedenza eletti dalle assemblee regionali, sono stati nominati dal presidente, da cui dipendeva la loro permanenza al potere. Identità e legami personali, tribali e regionali si rivelavano strumenti assai efficaci per controllare il paese, mentre l’amministrazione di Akaev diventava gradualmente sinonimo di «egemonia delle regioni settentrionali».
Senza armi nucleari, senza confini con paesi problematici, privo di «armi» politiche con cui procurarsi un più effettivo sostegno da parte di attori internazionali, il valore strategico del Kirghizistan è apparso a lungo limitato. L’unica eccezione è rappresentata dalla base statunitense di Manas, vicino a Bishkek. Manas ha costituito una fonte pressoché inesauribile di introiti per i vari regimi al potere in Kirghizistan [Cooley 2008]. Sempre più isolato all’interno del paese, governato tramite il ricorso a reti clientelari e sempre più corrotto, il regime di Akaev è stato rovesciato nel corso della cosiddetta «rivoluzione dei tulipani» del febbraio-aprile 2005, una delle rivoluzioni colorate che, tra l’autunno del 2003 e la primavera del 2005, hanno rimosso leader autoritari nello spazio post sovietico (Georgia, Ucraina e appunto Kirghizistan).
3. Dalla «rivoluzione dei tulipani» alla fine ingloriosa del regime di Bakiev. La crisi di aprile
Nella prima fase post Akaev, il maggiore timore si concentrava sulla possibilità che il Nord e il Sud decidessero di competere con candidati diversi alle elezioni presidenziali del luglio 2005. Fortunatamente, i due maggiori esponenti del movimento che aveva rimosso Akaev, ossia Kurmanbek Bakiev e Feliks Kulov, avevano deciso di presentare una candidatura comune: Bakiev sarebbe stato il candidato presidenziale (poi eletto con l’89% dei voti), mentre Kulov sarebbe stato nominato primo ministro. Ciò sarebbe servito a contenere possibili tensioni tra regioni settentrionali e meridionali, essendo Bakiev esponente del Sud del paese e Kulov del Nord.
Le vie di Bakiev e di Kulov si sono divise ben presto. Partiti, movimenti e rappresentanti del settentrione sono stati confinati ai margini della politica. Membri del «clan Bakiev», invece, hanno cominciato ad occupare tutti i posti chiave, a cominciare dall’ambita gestione dell’aeroporto di Manas. Rappresentanti della comunità uzbeka nel meridione come Anvar Artykov, governatore della provincia di Osh dalla rivoluzione dei tulipani fino al dicembre 2005, sono stati rapidamente rimossi; alcune figure scomode, come l’uomo d’affari e filantropo Kadyrjan Batyrov (rappresentante degli uzbeki della città di Jalalabad), sono entrate in rotta di collisione con il nuovo regime a causa della politica nazionalista di quest’ultimo.
La coalizione che aveva portato al potere Bakiev era in pezzi nel giro di sei mesi, rendendone la posizione politica meno sicura e più esposta a fronde da parte di gruppi di opposizione, regionali e/o etnici. Per fare fronte a tale situazione, il regime di Bakiev decideva allora di affidarsi a una combinazione di metodi «legali» ed extra legali. Una prima costituzione è stata approvata nel 2006, per poi essere sostituita da una nuova nel 2007, improntata al super presidenzialismo, con controlli e contrappesi pressoché inesistenti. Alla luce del successo del partito «Russia Unita», guidato da Vladimir Putin in Russia e, dietro consiglio del figlio Maxim, Bakiev ha lanciato un nuovo partito (Ak Zhol) che avrebbe dovuto diventare il fulcro di un nuovo sistema monopartitico. Corruzione e brutalità sono diventati sinonimo del regime di Bakiev. L’avidità della famiglia Bakiev (in particolare del figlio Maxim e dei fratelli Marat e Janysh) ha superato perfino gli standard posti da Akaev.
Quando, nell’inverno del 2009-2010, il regime ha imposto un aumento notevole delle tariffe di luce e gas, i cittadini, incapaci di pagare, si sono riversati in strada, protestando sia contro gli aumenti sia contro il regime. La protesta scoppiata a Talas, nella parte occidentale del Kirghizistan nell’aprile 2010, ha innescato una reazione a catena nel paese, giungendo fino alla capitale Bishkek. Nel giro di poche ore Bakiev era in fuga [W/ICG 2010a ]. Sembravano ripetersi le modalità di cambio di regime che avevano accompagnato la fuga di Akaev.
Le differenze tra il 2005 e il 2010 sono però emerse in tutta la loro violenza: nel 2005 l’equilibrio tra il vecchio e il nuovo regime era in maniera inequivocabile in favore del secondo, mentre nel 2010 la situazione era di stallo. Inoltre, il conflitto politico è stato accompagnato da una destabilizzazione dei rapporti interetnici, specialmente nel Sud del paese. Nel 2005, le minoranze etniche si erano tirate fuori da quello che era percepito come un conflitto tra kirghizi; al contrario, nel 2010, la presa di posizione netta degli uzbeki in favore del nuovo regime ha portato a un inasprimento dei rapporti interetnici.
3.1. La questione etnica nel Kirghizistan Meridionale. La crisi di giugno
La comunità uzbeka vive compatta nel Sud del paese, special- mente nelle regioni di Osh e Jalalabad, dove in alcuni villaggi delle regioni di confine costituiscono la maggioranza.
Una commistione fra il nepotismo di Bakiev e la crescita del nazionalismo kirghizo, specie tra i kirghizi meridionali, ha marginalizzato la popolazione uzbeka, che, fino al 2005, era fedele alle autorità. Ci sono tre ragioni principali alla base della marginalizzazione uzbeka [W/OA 14 luglio 2010 «Kyrgyzstan: Reconciliation is key to lasting stability»]. La prima è che i partiti politici sono quasi esclusivamente dominati dai kirghizi e le prospettiva di carriera nel settore pubblico per i non kirghizi sono molto limitate. Né Akaev né Bakiev si sono mostrati disponibili a discutere dello status della lingua uzbeka, neppure nelle regioni o nei distretti ove la popolazione è quasi esclusivamente uzbeka (la lingua russa gode di uno status formalmente pari a quello della lingua kirghiza).
Esasperati dall’alienazione politica e dal nichilismo legale in cui il paese è sprofondato negli ultimi anni, gli uzbeki hanno sostenuto fin dall’inizio le nuove autorità, sperando che l’amministrazione provvisoria ponesse un termine ai soprusi del clan di Bakiev. In effetti, negli scontri tra gruppi fedeli a Bakiev e le autorità provvisorie, verificatisi a Jalalabad nel maggio 2010, l’impasse è stata superata solo grazie all’intervento del centro uzbeko guidato dal già citato filantropo e uomo d’affari Kadyrjan Batyrov. Questo evento, però, è stato strumentalizzato dai gruppi nazionalisti kirghizi, che, in una rappresaglia, hanno dato fuoco all’università uzbeka di Jalalabad, fondata e finanziata dallo stesso Batyrov. La situazione è poi precipitata nella prima metà del mese di giugno allorché le autorità sono rimaste inerti di fronte alla escalation di scontri nel Sud del paese, in cui la popolazione uzbeka è stata presa come bersaglio da gruppi nazionalisti armati. Gli scontri del 10-14 giugno hanno causato almeno 400 morti e migliaia di feriti; interi quartieri della città di Osh sono stati messi a fuoco e rasi al suolo [W/ICG 2010b].
In sostanza, è stato questo seguito di avvenimenti a dare una colorazione etnica allo scontro fra il nuovo e il vecchio regime.
4. Alla ricerca di una nuova legittimità: dal referendum costituzionale alle elezioni parlamentari
La nuova costituzione, approvata dal 90% dei votanti nel referendum del 27 giugno 2010, è entrata in vigore immediatamente, il 30 giugno. L’evento è stato presentato dalle autorità provvisorie come spartiacque, in quanto per la prima volta, nell’arcipelago degli autoritarismi centroasiatici è stato introdotto un sistema parlamentare. La nuova costituzione ha ridefinito la distribuzione e l’equilibrio tra i vari poteri. Il mandato presidenziale dura sei anni e non è rinnovabile, cosa che dovrebbe contribuire a ridurre la pressione per creare una base di potere e clientelare da parte dei futuri presidenti. Inoltre, il presidente non è più a capo dell’esecutivo, né possiede più l’iniziativa legislativa. I deputati al parlamento nazionale (Jogorku Kenesh) vengono eletti tramite un sistema proporzionale in cui sono state introdotte due soglie di sbarramento: 5% a livello nazionale e 0,5% come soglia minima che i partiti devono raggiungere in ogni regione. Nessun partito può ottenere più di 65 seggi (su 120) in parlamento, così da evitare la formazione di un sistema monopartitico.
La nuova legge elettorale avrebbe dovuto garantire la formazione di un più stabile sistema partitico a livello nazionale. In realtà le elezioni parlamentari del 10 ottobre 2010 hanno dato al paese un parlamento senza una chiara maggioranza, prospettando una difficile fase di coalizione per il Kirghizistan [W/OA 12 ottobre 2010, «Kyrgyzstan: Elections give power to pro-Bakiev blocs»]. Solo cinque partiti sono riusciti a superare la doppia soglia di sbarramento imposta dalla legge elettorale: l’Ata-Jurt (Patria), guidato dal nazionalista Kamychbek Tashiev (8,67%); il Partito Social-democratico del Kirghizistan, guidato dall’ex primo ministro Almaz Atambaev (8,07%); Ar-Namys (Dignità), fondato da Feliks Kulov, già candidato presidenziale e primo ministro sotto Akaev e Bakiev (7,26%); Respublika (Repubblica), fondato dall’imprenditore Omurbek Babanov (7,08%); Ata Meken (Patria-Partito Socialista), guidato da Omurbek Tekebaev, già presidente del parlamento (5,87%).
Dal risultato delle elezioni sono emerse diverse considerazioni. Innanzitutto la vittoria è andata ai gruppi nazionalisti e di opposizione (intesa come opposizione all’ennesima «rivoluzione di aprile»). Il fatto che nessun partito sia riuscito a raccogliere almeno il 10% riflette la complessità e la frammentazione della politica del paese. Ata-Jurt, partito fortemente nazionalista con la base nel Sud del paese e legato a Bakiev, è la prima forza politica del Kirghizistan, sebbene abbia ottenuto solo l’8% dei voti (tradottosi nel 23% dei seggi). L’Ar-Namys di Kulov (con base nel Nord del paese) ha osteggiato, senza però i toni nazionalisti dell’Ata-Jurt, sia la nuova amministrazione sia la riforma in senso parlamentare, promettendo che una volta al potere avrebbe fatto di tutto per reintrodurre la costituzione precedente. Molti hanno visto in Kulov, sostenitore di una presidenza forte, il candidato preferito da Mosca.
La spaccatura nord-sud non si riflette invece nel risultato delle elezioni. Considerato che la base di potere di Bakiev si trova nel Sud, uno degli scenari peggiori avrebbe visto il paese diviso in due (Sud pro Bakiev, Nord in sostegno del nuovo corso). In realtà la situazione appare più complessa. I due partiti più vicini al Sud (Ata-Jurt e Ata Meken) si contraddistinguono per una visione assai diversa del paese. Ata-Jurt è vicina a Bakiev e ha condotto una campagna di tipo nazionalista, mentre Ata Meken ha cercato di disegnare un futuro moderato e inclusivo per il paese. Il Nord è rappresentato da Ar-Namys (opposizione) e dal Partito Social-democratico (filo-governativo). Finalmente, dopo due mesi di trattative, a dicembre è stato formato un governo di coalizione guidato da Almazbek Atambaev, di cui fanno parte l’Ata-Jurt, il Respublika e il Partito Social-democratico.
5. Le crisi del 2010 e la stabilità in Asia Centrale
Gli scontri di giugno hanno avuto risonanza oltre confine. Il vicino Uzbekistan ha dovuto far fronte a un’emergenza allorché oltre centomila rifugiati si sono riversati nel paese. A causa della costante instabilità del paese, la base statunitense di Manas ha dovuto sospendere le proprie operazioni, con ripercussioni sul funzionamento di una delle tratte della rete di distribuzione del nord da cui dipendono i rifornimenti di vettovagliamenti e/o di carburante alle truppe impegnate in Afghanistan.
5.1. Il ruolo dell’Uzbekistan durante il conflitto del giugno 2010
La reazione dell’Uzbekistan agli scontri del giugno 2010 è stata coerente con la più generale attitudine di Tashkent nei confronti delle comunità uzbeke d’oltre confine (quasi cinque milioni di uzbeki vivono nelle repubbliche centroasiatiche post sovietiche e in Afghanistan). Questa, nel periodo post sovietico, è stata caratterizzata dal fatto che Tashkent si è sempre astenuta dall’intervenire in sostegno degli «uzbeki esterni», guardati con distacco e anche con sospetto. In occasione del conflitto interetnico fra uzbeki e kirghizi nel paese vicino, Tashkent, pur condannando la violenza in Kirghizistan, ha sottolineato come gli scontri fossero una questione interna di quel paese.
In realtà, l’Uzbekistan era stato colto di sorpresa dalla rapidità con cui il regime di Akaev è andato in pezzi nel 2005. L’iniziale atmosfera di cooperazione con il regime di Bakiev era poi durata ben poco, a causa dei piani di questo di attrarre investimenti russi per sviluppare la centrale idroelettrica di Kambarata. Questa mossa ha suscitato le ire di Tashkent, in quanto tale politica avrebbe avuto effetti negativi sull’agricoltura e sull’industria del cotone in Uzbekistan. Questa situazione di tensione non è stata superata in occasione della caduta di Bakiev, tanto che Tashkent si è mostrata riluttante ad allacciare rapporti con le autorità provvisorie nella primavera del 2010. Ciò che allarmava le autorità uzbeke è la frequenza con cui nuovi regimi della porta accanto si formano e crollano. Rendere i propri confini impenetrabili all’islamismo radicale (che, secondo le autorità, si infiltra in Uzbekistan a causa degli inefficaci controlli di confine dei paesi vicini) e controllare il movimento delle comunità transfrontaliere costituiscono delle priorità per il governo kirghizo, il cui scenario peggiore consiste nell’implosione del regime vicino e nel pericolo che masse di profughi si riversino nel suo territorio.
In seguito agli eventi che hanno portato alla fuga di Bakiev, l’Uzbekistan ha mantenuto chiusi i propri confini con il paese vicino. Quando le prime notizie circa le violenze hanno cominciato a farsi strada tra il 10 ed l’11 giugno, il confine tra Uzbekistan e Kirghizistan era ancora chiuso. È stato solo nella giornata del 12 giugno che le autorità uzbeke hanno consentito di accogliere i rifugiati che, a migliaia, si erano riversati al confine con l’Uzbekistan. Il confine è rimasto aperto fino al 14 giugno, quando è stato nuovamente chiuso. Le cifre ufficiali parlano di 45.000 rifugiati, mentre stime ufficiose ne indicano almeno 75.000 [W/ICG 2010b].
6. «La politica delle basi»: il Kirghizistan nel contesto delle strategie di Russia e Stati Uniti
Come osserva il politologo Eugene Huskey, il Kirghizistan, paese prigioniero di una rete di relazioni politiche, militari ed economiche tra Russia, Stati Uniti e Cina [Huskey 2008], è diventato, nell’ultimo decennio, un indicatore dello stato dei rapporti tra questi attori globali, spesso conflittuali in Asia Centrale. Nonostante che il paese non sia un semplice oggetto nelle mani di attori esterni alla regione, comprendere il ruolo del Kirghizistan nelle relazioni internazionali richiede che si riconosca l’importanza di tre fattori strutturali, o vulnerabilità [Huskey 2008, p. 6]. Il ruolo della geografia nelle scelte di politica estera del paese è tutt’altro che indifferente. Le catene montuose dello Tien Shan e del Pamir Alay dividono il paese in due, rendendo le comunicazioni interne ed internazionali particolarmente complicate. Rete stradale e ferroviarie poco sviluppate, comunicazioni aeree precarie e una distanza considerevole dal porto di mare più vicino (2.000 chilometri) hanno tradizionalmente esposto il Kirghizistan all’influenza dei vicini Kazakistan, Uzbekistan e Cina. La vulnerabilità geografica del paese è accentuata da quella economica. Privo di risorse naturali (a parte l’acqua come si è detto), il Kirghizistan è sopravvissuto al crollo della produzione industriale che ha fatto seguito all’indipendenza grazie ai vari programmi di assistenza internazionale. I flussi migratori degli anni Novanta (soprattutto verso la Russia e i paesi europei) e quelli degli anni zero del Duemila (in cui un quinto della popolazione era emigrato in Russia) hanno svuotato il paese di risorse umane. Infine, a livello politico, la pressione da parte di regimi autoritari confinanti (Cina, Uzbekistan e Kazakistan) e vicini (Russia) ha di fatto bloccato le dinamiche di democratizzazione avviate nei primi anni Novanta.
Il risultato di queste vulnerabilità geografiche, economiche e politiche è stata una politica estera incerta ed incoerente, che ha cercato (con riferimento al concetto di politica multivettoriale) di mantenere buoni rapporti con tutti, cercando di trarre massimo profitto da questi, anche a costo di precipitare in ovvie contraddizioni. Tra queste, si ricorda l’accordo con la Russia del 2009 che prevedeva l’espulsione delle forze statunitensi dietro cospicuo compenso, mentre lo stesso regime al potere negoziava con gli Stati Uniti maggiori introiti per la base di Manas.
6.1. Gli Stati Uniti e l’ossessione per Manas
Per gli Stati Uniti il valore principale del Kirghizistan consiste nel fatto che ospita la base militare di Manas (vicino alla capitale Bishkek), ufficialmente nota come «Transit Center at Manas International Airport». L’apertura della base risale al dicembre 2001, quando il Kirghizistan ha seguito il vicino Uzbekistan nella decisione di partecipare attivamente alle operazioni degli USA e della NATO in Afghanistan, acconsentendo all’uso del proprio territorio come base logistica.
Dopo aver perso l’accesso alla base di Qarshi-Khanabad in Uzbekistan nel 2005 [Fumagalli 2007a], mantenere una base in Kirghizistan è diventata una priorità per Washington. Al tempo stesso la questione della permanenza della base e il suo futuro a lungo termine sono ripetutamente oggetto di trattative tra Washington e i governi kirghizi, chiunque sia al potere a Bishkek. Contrariamente ad altri casi, dove la presenza di una base americana è legata ad una vittoria militare degli USA o a un ruolo salvifico per la liberazione del paese, l’esistenza della base di Manas si spiega con un accordo solo di natura economica. L’uso della base comporta, infatti, vantaggi economici per le autorità kirghize, aumentati a dismisura negli anni [Cooley 2008]. Con Akaev, infatti, gli USA pagavano circa due milioni di dollari all’anno per l’uso della base; ma, minacciando di espellerli, Bakiev è riuscito a ottenere somme ancor più considerevoli. Nel 2006 un primo accordo ha portato l’affitto della base a 17 milioni, calcolati nell’ambito di un pacchetto di aiuti americani del valore di 150 milioni l’anno. Ciò nonostante, nel febbraio 2009 Bakiev ha annunciato che la base sarebbe stata chiusa. Sono seguiti mesi intensi di trattative: Bishkek ha ottenuto incentivi dalla Russia a febbraio per poi rinegoziare e concludere a giugno un nuovo accordo con gli Stati Uniti che lasciava loro l’utilizzo della base; l’operazione spregiudicata delle autorità kirghize ha triplicato l’affitto di Manas [Cooley 2010].
L’accordo vanificava gli sforzi russi, la cui risposta non ha tardato a farsi sentire. I media russi hanno cominciato una campagna negativa nei confronti del regime di Bakiev, sottolineandone l’avidità e la corruzione.
6.2. La presenza e gli interessi russi in Kirghizistan
Se gli interessi statunitensi nel paese sono prevalentemente collegati al destino della base, il ruolo russo appare più complesso e la disintegrazione dello stato potrebbe fare del paese una priorità per Mosca. Un paese in via di frammentazione potrebbe facilitare il transito di militanti islamici dall’Afghanistan fino ai confini russi; il flusso di narcotici, già peraltro abbondante, che passa attraverso il paese potrebbe aumentare ulteriormente. Uno scenario anche peggiore vedrebbe il Sud del Kirghizistan trasformarsi in un’entità semi-autonoma, dominata da gruppi criminali e potenziale esportatrice della propria instabilità.
La Russia considera l’Asia Centrale come una zona di interesse privilegiato e, in quest’area, il Kirghizistan rappresenta l’anello più debole. I rapporti tra Kirghizistan e Russia erano contraddistinti da stretta collaborazione sia sotto l’amministrazione Akaev (al di là della presenza militare statunitense nel paese) sia durante la prima fase della presidenza di Bakiev. Le tensioni, come si è già detto, hanno cominciato a verificarsi nel 2009, durante i negoziati che hanno portato al rinnovo del contratto per la base di Manas.
La Russia gioca un ruolo di rilievo nella vita militare, socio-culturale ed economica del Kirghizistan. Economicamente il paese dipende dai prestiti e dagli investimenti russi nell’economia locale, specialmente nel settore idroelettrico. Si tratta di un settore il cui sviluppo consentirebbe a Bishkek di ridurre la propria dipendenza energetica dal metano uzbeko e dall’elettricità kazaka e russa. Le rimesse degli immigrati kirghizi in Russia (che costituiscono una parte considerevole dei circa due miliardi di dollari l’anno di rimesse, complessivamente pari al 30% del budget del paese) hanno mantenuto a galla l’economia locale. Il paese trae, inoltre, beneficio dagli investimenti russi nel settore della difesa del paese. La base aerea di Kant, in affitto ai Russi, si trova a circa 20 chilometri di distanza dalla base statunitense di Manas. Il Kirghizistan è legato a Mosca da altri accordi e dalla partecipazioni a vari fora multilaterali, come la CSTO (Collective Security Treaty Organization), l’Organizzazione per la Sicurezza di Shanghai e la Comunità Economica Eurasiatica.
Sono due i momenti chiave del 2010 per quello che attiene al ruolo russo in Kirghizistan. In primo luogo, contrariamente a quanto avvenuto nel 2005, quando Mosca aveva apertamente osteggiato il cambiamento di regime, nell’aprile dell’anno in esame il primo ministro russo Vladimir Putin è stato il primo, fra i rappresentanti di governi stranieri, a riconoscere le autorità provvisorie a Bishkek. In secondo luogo, quando il 12 giugno Roza Otunbayeva ha esplicitamente richiesto l’intervento russo, in considerazione di una situazione ormai fuori controllo, Mosca si è tirata indietro. Il presidente russo Dmitri Medvedev aveva sottolineato la necessità che venisse ripristinato l’ordine nel paese e che venisse posto termine al conflitto interetnico. Nikolai Patrushev, segretario del consiglio di sicurezza nazionale, aveva aggiunto il giorno seguente che la situazione nel paese era di estrema complessità, con rischi seri per la stabilità dell’intera regione. A quel punto Medvedev ha lasciato la questione nella mani della CSTO, che, a sua volta, è rimasta in disparte.
La posizione russa è in realtà chiara: il Kirghizistan si sta avviando verso un processo di disintegrazione dello stato in cui la Russia non vuole essere coinvolta. La Russia si troverebbe costretta a intervenire militarmente, diventando di fatto una delle parti del conflitto. Già nell’aprile 2010 il presidente Medvedev aveva espresso timori che la disintegrazione del paese fosse una minaccia reale. Una volta ritornata la calma, Medvedev ha poi ribadito il pessimismo russo circa le prospettive del Kirghizistan, affermando che il caos potrebbe a lungo andare portare a uno scenario simile a quello afghano. Questo costituirebbe una minaccia per la Russia e le altre repubbliche dell’Asia Centrale.
La Russia e gli Stati Uniti sono spettatori tutt’altro che indifferenti alle vicende interne del Kirghizistan. Sia Mosca che Washington hanno seguito da vicino le elezioni del 2010, mantenendo un basso profilo per evitare strumentalizzazioni durante la campagna elettorale. Uno dei convitati di pietra delle elezioni è stata senza dubbio la base militare statunitense di Manas. Dopo aver assunto la presidenza ad interim, Roza Otunbayeva ha cercato di prevenire polemiche in merito alle sorti di questa, spesso ostaggio di diatribe tra i kirghizi, annunciando che il rinnovo del contratto sarebbe stato automatico, per un altro anno, fino all’estate del 2011. Rinnovato il parlamento e con un nuovo governo, la questione dovrebbe tornare d’attualità nel 2011.
7. Conclusione
Rivolte popolari e crollo dei regimi seguiti da vuoto legale e contestazioni di legittimità si sono già verificati due volte in cinque anni. Corruzione, criminalità dilagante e violenza (politica e non) sono diventate la norma in Kirghizistan. Se lo stato sostanzialmente funziona nel Nord del paese, lo stesso non può dirsi del Sud. Il referendum costituzionale del 27 giugno 2010 ha portato una certa legittimità alle autorità provvisorie, dilapidata poi in una estate fatta di divisioni interne, di mancanza di iniziativa e, senza dubbio, di deficit di legittimità agli occhi di molti.
Il susseguirsi di «rivoluzioni» e la formazione di nuovi regimi autoritari in Kirghizistan ha messo in luce un evidente paradosso: siamo di fronte a uno stato palesemente fragile che riesce ad estorcere obbedienza ai cittadini, che talvolta proietta violenza, ma che, alla fine, può essere rimosso in pochi giorni, mentre il presidente in carica è costretto alla fuga [Matveeva 2010].
In particolare, gli eventi del 2010 hanno mostrato come il Kirghizistan Meridionale sia oggi alla deriva. A parte la questione del controllo del Centro sulla periferia (o meglio la manifesta incapacità del primo di fare proprio questo), il Sud deve far fronte ad una serie di altri problemi, tra cui le profonde divisioni all’interno della stessa comunità kirghiza meridionale, dimostrazione che le divisioni nel paese non sono solo tra nord e sud. Ma anche i diversi orientamenti politici fra gli uzbeki, più filo-governativi a Jalalabad e meno a Osh, la disoccupazione, la povertà e una mancanza di prospettive economiche hanno portato a una emigrazione di massa.
Alla fine del 2010 le prospettive per una stabilizzazione politica in Kirghizistan rimanevano poche. Il paese non può avviarsi a diventare la prima democrazia parlamentare dell’Asia Centrale senza che siano risolte le cause strutturali che hanno dato vita all’instabilità, al caos e alla violenza. Un crescente nazionalismo tra i kirghizi del sud, una sempre più profonda crisi dello stato e delle istituzioni, nonché la miopia strategica di Stati Uniti e Russia hanno ulteriormente ridotto la capacità di resistenza dello stato.
Riferimenti bibliografici
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2010 Kyrgyzstan in Crisis: Permanent Revolution and the Curse of Nationalism, Crisis States Research Center, Working Paper n° 79, Settembre, London School of Economics.