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Giorgio Borsa & Asia Maior

LA STORIA DELL’ASIA COME «STORIA DEL PRESENTE»: IL RUOLO DI GIORGIO BORSA E DI ASIA MAIOR

di Michelguglielmo Torri

 

 

Premessa

L’Italia ha una lunga e fiorente tradizione di studi orientalistici, iniziati addirittura prima dell’unificazione.[1] Tali studi, prevalentemente finalizzati sull’evo antico, sono caratterizzati dall’utilizzo di strumenti quali la linguistica, la glottologia, la letteratura e, in misura minore, la filosofia. Tale branca di studi può essere legittimamente definita con il termine di «orientalistica». Bisogna però notare che, accanto all’orientalistica – in Italia come altrove –, è fiorita una diversa, per quanto analoga, branca di studi, definibile come «asiatistica». L’asiatistica – prevalentemente, anche se non esclusivamente, focalizzata sul periodo moderno e contemporaneo – è lo studio dell’Asia attraverso strumenti quali la storia, la politologia, la sociologia, l’antropologia e l’economia. In Italia, inoltre, essa è rimasta legata, dal punto di vista disciplinare, all’utilizzo prevalente della storia: le analisi politologiche, antropologiche, sociologiche e, infine, economiche, per quanto non del tutto assenti, sono assai limitate.[2]

Mentre l’orientalistica italiana, come si è detto, risale addirittura alla vigilia dell’unificazione, l’asiatistica è invece un fenomeno relativamente recente, risalente agli anni Quaranta del secolo scorso.[3] Questo spiega in parte – anche se solo in parte – perché l’orientalistica italiana si sia costruita e mantenga tutt’oggi una posizione di forza nell’ambito dell’accademia, mentre l’asiatistica è stata sempre caratterizzata da una posizione di debolezza.

Nonostante la debolezza accademica della disciplina, gli asiatisti italiani, per quanto in genere isolati all’interno delle istituzioni universitarie a cui appartengono, sono autori di un cospicuo insieme di ricerche, a volte di considerevole dignità scientifica. Tuttavia, quella schiacciante maggioranza di asiatisti italiani che utilizza gli strumenti conoscitivi propri dello storico ha avuto la tendenza – come del resto la quasi totalità degli gli storici italiani attivi in altre branche d’indagine – a lasciare da parte la «storia del presente». Con questa etichetta, chi scrive designa quel periodo storico in cui gli archivi rimangono chiusi: si tratta, cioè, di un periodo che, dal momento in cui viviamo, va indietro nel passato, in genere di alcuni decenni. Data la non disponibilità delle fonti d’archivio, il periodo in questione è stato programmaticamente lasciato dagli storici a giornalisti, politologi ed economisti. In  effetti, quei pochi storici che si sono cimentati con esso, sono in genere stati stigmatizzati dai loro colleghi come autori di scritti «giornalistici», cioè, per definizione, di scarso valore scientifico.

Ripercorrere la storia dell’asiatistica italiana sarebbe un compito non privo d’interesse che, certo, contribuirebbe ad una migliore comprensione della storia della cultura italiana. Ma si tratta anche di un compito troppo ambizioso e troppo impegnativo per poterlo portare a termine con una minima pretesa di completezza nel breve spazio di un articolo. In questa sede, quindi, ci limiteremo ad analizzare un singolo aspetto dell’intera questione: il tentativo avviato da Giorgio Borsa, oltre vent’anni fa, di iniziare una tradizione di studi della storia del presente dell’Asia. A sua volta, questo ci impone l’analisi delle vicende dell’osservatorio da lui fondato nel 1989. Tale osservatorio, battezzato «Asia Major», nel 2006 assunse il nome di «Asia Maior» (con la «i» semplice, piuttosto che con la «j»).[4] Per evitare confusioni, in questo scritto parleremo di Asia Maior o del gruppo di Asia Maior, con il caveat che, appunto, prima del 2006, il nome ufficiale era Asia Major. Nonostante il cambio del nome, dalla fondazione ad oggi Asia Maior ha continuato le proprie attività lungo le linee fissate dallo stesso Giorgio Borsa.

 

«Asia Maior» come storia del presente

Giorgio Borsa concepì l’idea di fondare Asia Maior in con­comitanza con quel seguito d’eventi che, il 9 novembre 1989, sfociò nella caduta del muro di Berlino, cioè nell’avvenimento che prean­nunciò, anche se pochi allora se ne resero conto, il prossimo collasso della stessa Unione Sovietica. Borsa, a differenza dei tradizionali orientalisti, non considerava le civiltà asiatiche come aree separate dall’Occidente, che obbedivano a modalità di sviluppo storico a loro peculiari e, in ogni caso, profondamente diverse da quelle che in­formano lo sviluppo della civiltà occidentale. Egli era invece con­vinto – decenni prima che il termine «globalizzazione» fosse inven­tato – che sia le civiltà asiatiche sia la civiltà occidentale fossero parte di un unico insieme politico, economico e culturale; a suo modo di vedere, quindi, sia le une sia l’altra erano attraversate dagli stessi processi di mutamento e di trasformazione; di conseguenza, le ci­viltà asiatiche andavano studiate utilizzando le stesse metodologie che si impiegavano per la civiltà occidentale. In sostanza, Borsa era convinto dell’esistenza di profonde, e reciproche, interconnes­sioni fra Occidente e civiltà asiatiche, in particolare a partire dal pe­riodo che aveva visto la nascita del «mondo moderno». Questo era da lui definito come il mondo nato dalla rivoluzione industriale e caratterizzato dalle conseguenze di tale rivoluzione, non solo a li­vello economico, ma anche politico, militare e culturale.[5]

Coerentemente con questa sua visione, Borsa si rese imme­diatamente conto che gli epocali sviluppi che si stavano verificando in Europa non potevano non avere una ricaduta sull’Asia. Secondo la sua teoria, la modernizzazione in Asia si era storicamente verifi­cata non per un’imposizione dall’alto (per un «travaso» di civiltà, quasi che la civiltà fosse un liquido, come Borsa amava puntualizzare ironicamente[6]), ma attraverso l’attiva risposta delle diverse civiltà asia­tiche all’impatto occidentale. Coerentemente con questa sua vi­sione, Borsa ipotizzò che le ricadute in Asia degli eventi in Europa non sarebbero state un’accettazione passiva da parte delle nazioni asiatiche degli sviluppi verificatisi in Occidente, ma una risposta at­tiva, che avrebbe comportato una rilettura e una rielaborazione di quegli sviluppi, cioè la formulazione di una risposta – che, a seconda dei casi, sarebbe stata peculiarmente cinese, giapponese, indiana ecc. – agli eventi dell’89 e ai problemi di cui essi erano causa ed ef­fetto allo stesso tempo. Da studioso empirico qual era, Borsa decise allora di creare un osservatorio sull’Asia, con il compito specifico di analizzare il concreto dispiegarsi delle vicende politiche ed econo­miche nelle nazioni asiatiche, sia nelle loro dinamiche sia alla luce e come conseguenza degli eventi in Europa. Questo osservatorio venne battezzato da Borsa «Asia Maior», con un preciso riferimento geografico e culturale a quella parte dell’Asia che esisteva al di là dell’«Asia Minor» degli antichi.

Concretamente, il principale compito dell’osservatorio ide­ato da Borsa doveva essere quello di produrre, con scadenza an­nuale, un volume collettaneo, composto di saggi dedicati alle singole nazioni asiatiche, le più importanti analizzate con scadenza annuale, quelle meno rilevanti con minor frequenza, quando gli sviluppi politici ed economici lo avessero giustificato. Tali saggi, inoltre, non avrebbero dovuto essere semplici, per quanto diligenti, cronache, che ricostruissero puntualmente gli accadimenti di quel singolo paese nel periodo in esame. Il metodo che si sarebbe dovuto usare sarebbe invece stato quello tipico dello storico, anche se appli­cato al tempo presente e a periodi in genere di un anno; tale me­todo, cioè, si sarebbe basato sull’individuazione per ciascun paese, nel periodo in esame, dell’evento o degli eventi più rilevanti e, quindi, tali da caratterizzare quel periodo, per poi procedere a fis­sare le differenti catene d’eventi che, intersecandosi a quel determi­nato punto, producevano l’evento o gli eventi individuati come ca­ratterizzanti.[7]

La decisione di fondare Asia Maior venne presa nell’autunno 1989 nel corso di una riunione convocata da Giorgio Borsa presso l’ISPI di Milano. In essa, Borsa enunciò con chiarezza le direttive metodologiche sopra riportate, a cui si sarebbero dovuti attenere i collaboratori dei volumi che, da quel momento in avanti, sarebbero stati pubblicati con scadenza annuale. È degno di nota che, né in quella occasione né successivamente, vennero mai enunciate delle linee ideologiche a cui avrebbero dovuto attenersi i collaboratori. O, per meglio dire, fu chiaro fin dall’inizio che in Asia Maior vigeva la più assoluta libertà ideologica da parte dei singoli (coerentemente, del resto, a quella che era sempre stata la filosofia di Giorgio Borsa, da lui invariabilmente applicata nei rapporti con i propri allievi).

Nel decidere di impegnare un gruppo di storici nel compito di analizzare il presente dell’Asia come storia, Giorgio Borsa prese una decisione che, nel mondo culturale italiano, era eterodossa dal punto di vista sia dei tradizionali orientalisti sia degli storici asiatisti. Per quanto riguarda gli orientalisti tradizionali, lo studio della contemporaneità, fatto applicando gli stessi metodi in vigore per lo studio dell’Occidente, era in sé una bizzarria. Per quanto riguardava gli storici asiatisti, l’idea di operare prescindendo dai documenti d’archivio era qualcosa d’inammissibile.

Ma, dopo tutto, Borsa era stato un innovatore fin dall’inizio della sua carriera scientifica, quando, come ricordato, aveva dato un contributo di fondamentale importanza alla nascita dell’asiatistica italiana. Ora, arrivato alla soglia degli ottant’anni, Borsa si impegnò nello sviluppo di una nuova branca dell’asiatistica: la storia del presente in Asia. Infatti, il lancio della serie di volumi annuali prodotti da Asia Maior rappresentò l’inizio di un sistematico tentativo di analizzare il presente dell’Asia con gli strumenti propri della storia.

Vero è che non tutti, fra i collaboratori dei volumi annuali, erano, per formazione, degli storici; ma, sotto la guida di Borsa, lo sforzo di applicare il metodo storico nella ricostruzione della storia del presente in Asia fu costante. La controprova del suc­cesso di tale metodo è il fatto che, volgendo lo sguardo all’indietro, cioè agli oltre vent’anni in cui sono comparsi i saggi di Asia Maior, la lettura di quanto si è scritto rivela come la maggior parte delle analisi elaborate dal gruppo sia formata da scritti che non rivelano – o rivelano solo in modo decisamente marginale – l’usura del tempo. In altre parole – e con alcune inevitabili eccezioni – la capacità euristica di saggi scritti dieci, quindici o vent’anni fa rimane sostanzial­mente immutata. E, se anche – per volontà dello stesso Borsa – parte integrante della filosofia di Asia Maior ha continuato ad essere quella di non fare previ­sioni sul futuro, molti dei singoli saggi pubblicati nel corso degli anni rivelano, a livello implicito, la capacità di prefigurare quello che sarebbe successo dopo.

 

 

All’origine della filosofia politica di Asia Maior: Piero Martinetti e Giorgio Borsa

Se quello appena ricordato per sommi capi è stato il baga­glio metodologico di Asia Maior, è bene però sottolineare che esso, di per sé, sarebbe una sorta di scatola vuota se fosse disgiunto dal bagaglio filosofico e politico, parte integrante della vicenda cul­turale di cui i volumi di Asia Maior sono espressione. E, anche qui, Giorgio Borsa ebbe un ruolo assoluta­mente determinante, su cui è necessario soffermarsi. Per farlo è bene ricordare quali siano state le origini culturali e politiche di Giorgio Borsa, non solo perché, come si è appena ricordato, esse hanno condizionato in maniera decisiva l’intera impresa di Asia Maior (e, più in generale, tutta l’attività scientifica di Borsa), ma anche perché quello che fino a qui si sapeva sul retroterra politico e culturale di Borsa era, nel complesso, abbastanza poco. E, vale subito la pena di ricordare, è un fatto che rivela allo stesso tempo l’importanza culturale di Borsa e, ahimè, la povertà sia dell’orientalismo, sia dell’asiatistica italiani (ma su questo torneremo), che tali radici culturali siano state riscoperte, di fatto per caso, da un eminente sto­rico dell’Italia contemporanea, Pier Giorgio Zunino, nel corso di una ricerca che, come diremo fra poco, nulla aveva a che vedere con il mondo dell’orientalismo o dell’asiatistica italiani.

Giorgio Borsa (Milano 1912 – Milano 2002) era figlio di Mario Borsa, un noto giornalista di idee antifasciste e, dopo il crollo del Fascismo, un critico non compiacente delle pro­fonde e ramificate complicità presenti nella società italiana nei con­fronti del Fascismo.[8] Era quindi in una famiglia antifascista da sem­pre che il giovane Giorgio venne a formarsi culturalmente e politi­camente; e questa sua formazione originaria lo indirizzò sia nella scelta degli studi universitari, sia nelle frequentazioni culturali di quel periodo. Borsa si laureò una prima volta, nel 1933, in giuri­sprudenza a Milano, con una tesi intitolata La cessazione dei mandati internazionali; si trattava di un tema che non solo denotava l’interesse già presente per tematiche extraeuropee, ma che, come notato da Pier Giorgio Zunino, era «di non modesta attualità politica nell’Italia del tempo»[9]. Due anni dopo, sempre presso l’Università di Milano, Giorgio si laureava una seconda volta, in filosofia, con una tesi intitolata Il fondamento morale e religioso della azione di Gandhi.[10]

Lo stesso Borsa ha spiegato le origini del suo interesse per Gandhi, sia in conversazioni personali con i suoi discepoli, sia nell’introduzione all’edizione del 1983 della sua biografia del Ma­hatma. «Erano – anche quelli – ‘anni di piombo’.» scriveva Borsa, paragonando gli anni Trenta agli anni del terrorismo brigatista. «La maggioranza degli italiani era in preda alla retorica fascista o badava al suo particulare. Noi eravamo un piccolo gruppo di studenti uni­versitari collegati con ‘Giustizia e Libertà’ e ci sforzavamo, con po­chissimo successo, di promuovere una qualche manifestazione di pubblico dissenso, come quando cercammo (finendo subito a San Vittore) di trascinare il loggione della Scala in una dimostrazione a favore di Arturo Toscanini, che era poco prima stato bastonato dai fascisti per non aver voluto dirigere Giovinezza ad un concerto. La gente non ne voleva sapere; e proprio in quegli anni, Gandhi era riuscito a indurre più di cinquantamila persone a farsi volontaria­mente incarcerare violando, con un gesto simbolico, la legge britan­nica sul monopolio del sale.» «Da dove traeva questo piccolo uomo così fragile ed indifeso, sgangherato nell’aspetto, tanta forza morale e tanta capacità di suggestione e di persuasione? – si chiedeva Borsa. E continuava dicendo –  È così che incominciai a interessarmi a lui e, per rispondere a questa domanda, alla vigilia del conflitto, scrissi la sua biografia.»[11]

È indubitabile, quindi, che gli interessi culturali di Borsa fos­sero solidamente basati sulle sue idee politiche. Tali idee, però, non derivavano originariamente e solo dall’esempio gandhiano, ma, come si è già detto, dall’ambiente familiare e, come lo stesso Borsa ricorda nel brano appena citato, dalle frequentazioni dei circoli an­tifascisti milanesi. Fu in questo ambito che Giorgio Borsa incontrò, per venirne poi profondamente influenzato, il filosofo Piero Marti­netti.

Un nome ormai dimenticato dai più, quello di Piero Marti­netti (1872-1943) merita di essere ricuperato dall’oblio, per il sem­plice fatto che egli fu uno dei 12 professori universitari italiani che, nel 1931, rifiutò il giuramento di fedeltà al Fascismo, perdendo di conseguenza il proprio posto di lavoro.[12] Borsa, sempre avaro di noti­zie sulla sua vita personale, non ricordò mai, almeno a chi scrive (che, tuttavia, lo frequentò assiduamente lungo un arco temporale di circa trent’anni), il suo sodalizio con Martinetti. È tuttavia chiaro che – come puntualizzato da Pier Giorgio Zunino – questo sodalizio vi fu e fu importante. Esso è attestato soprattutto da due tracce. La prima si trova nel primo libro di Borsa, quel Gandhi e il risorgimento indiano, che nacque dalla rielaborazione della sua seconda tesi di Laurea.[13] Qui, la conclusione del libro si soffermava sulla filosofia politica di Gandhi e si chiudeva riproponendo il giudizio di Martinetti su Gan­dhi, tratto da una raccolta di scritti del filosofo, pubblicata nel 1926.[14]

Che la frequentazione di Martinetti da parte di Borsa non fosse episodica, risulta ancora più chiaramente dal fatto che, nel 1951, a pochi anni dalla morte di Martinetti, Borsa ne curasse una nuova raccolta di scritti, in parte inediti, a cui premetteva una cor­posa introduzione.[15] È in questa introduzione che compaiono sia l’unico frammento salvatosi dell’ultima lettera nota di Pietro Marti­netti («Io sono sempre stato un filosofo inattuale»[16]) sia una sintetica indicazione di quale fosse stato il ruolo intellettuale di Martinetti an­cora nell’ultima parte della sua vita, quando era stato allontanato dall’insegnamento universitario a causa del suo mancato giuramento di fedeltà al Fascismo. «Negli ultimi anni – scrive Borsa a proposito di Martinetti – ormai lontano ed estraneo al mondo accademico, riunì idealmente intorno a sé una comunità di amici devoti, quasi un collegium di discepoli con cui continuava, soprattutto per lettera, i discorsi interrotti dalla cattedra».[17] Si trattava di un collegium di disce­poli di cui – come evidenziato dalle ricerche di Pier Giorgio Zunino – facevano parte nomi illustri dell’intellettualità italiana, da Gioele Solari a Norberto Bobbio. E, anche, di un circolo di persone con ben precise connotazioni politiche, se è vero, come ricordato da Diego Fusaro, che Martinetti finì in carcere dal 15 al 20 maggio 1935, «per la sua sospetta corrispondenza con intellettuali invisi al regime, in particolare con alcuni esponenti del movimento clande­stino ‘Giustizia e Libertà’ di cui naturalmente non fece mai parte»[18].

A questo collegium di amici e di discepoli di Martinetti appar­teneva, evidentemente, Borsa, com’è chiaro dal fatto che, come ricordato dallo stesso Borsa, i due fossero legati da una corri­spondenza epistolare. Si può ipotizzare che la frequentazione del filosofo abbia avuto un ruolo nell’indirizzare Borsa definitivamente verso lo studio delle civiltà extra europee. Infatti, vi era un chiaro interesse da parte di Martinetti per la filosofia indiana, tanto che la sua prima opera filosofica, pubblicata nel 1897 e frutto della rielabo­razione della tesi di Laurea (conseguita a Torino nel 1893), era una monografia su un sistema filosofico indiano, il Sāṃkhya[19]; inoltre, i riferimenti alla filosofia indiana, parte del bagaglio culturale di Martinetti, e presenti negli scritti del filosofo, erano noti a Borsa (che li cita, ad esempio, nella sua introduzione agli scritti di Martinetti[20]). Ma, ad avere un ruolo importante nella formazione intellettuale di Borsa, più che le suggestioni degli studi sulla filosofia indiana fu, indubbiamente, il fatto che Martinetti fosse «una singolare figura di intellettuale ‘laico’, distante tanto dalla filosofia accademica uffi­ciale, l’attualismo di Giovanni Gentile, quanto dalla caleidoscopica mappa politico-religiosa imperante, ovvero la Chiesa cattolica da una parte, i neonati fascisti e le opposizioni socialiste e comuniste dall’altra.» Un intellettuale, insomma, che «non si preoccupa[va] di apparire favorevole all’uno o all’altro schieramento in campo.»[21]

È questo un giudizio che si può riproporre, mutatis mutandis, a proposito dello stesso Borsa. Borsa era, infatti, un laico, un antifa­scista, un progressista e una persona che si tenne sempre lontana sia dalle posizioni dei cattolici sia da quelle dei marxisti, quando, nei decenni successivi al secondo dopoguerra, queste due correnti culturali e po­litiche erano dominanti in Italia. Coerentemente col suo passato in ‘Giustizia e Libertà’, Borsa si considerava un liberale, ma un liberale nel significato anglo-sassone del termine. Da questa posizione cultu­rale e politica discendeva, da parte di Borsa, la totale e sincera apertura alla discussione, al confronto intellettuale e al dialogo sce­vro da pregiudizi con persone con idee politiche anche profonda­mente diverse dalle sue. Che tale atteggiamento metodologico, di cui chi scrive può dare testimonianza diretta, non fosse superficiale ma parte integrante della personale visione del mondo di Giorgio Borsa è testimoniato dal fatto che uno degli allievi a lui più vicini, Enrica Collotti Pischel, fosse persona di idee politiche diversissime dalle sue: non solo una marxista dura e pura, ma, a tutti gli effetti, un in­tellettuale organico del PCI.

 

 

Il contributo di Giorgio Borsa all’asiatistica italiana: la teoria della modernizzazione

È sulle basi culturali e politiche fin qui ricordate che Borsa svolse il suo ruolo di filosofo prestato alla storia dell’Asia moderna e contemporanea. Borsa era entrato nell’ambito degli studi storici sull’Asia nel 1942, con la pubblicazione del già citato Gandhi e il ri­sorgimento indiano e, per quanto, come si è visto, questo passaggio non fosse allora ancora definitivo, lo divenne nel decennio succes­sivo.[22] A partire dagli anni Cinquanta, Borsa studiò la storia dell’Asia dal punto di vista delle relazioni internazionali[23]; successivamente, pur senza mai abbandonare i suoi interessi per la storia delle rela­zioni internazionali[24], esaminò quelli che considerava i tre paesi chiave dell’Asia Orientale – Cina, Giappone e India – soprattutto dal punto di vista della storia politica, sociale ed economica. Fu negli anni Cinquanta e Sessanta che Borsa elaborò la sua teoria della mo­dernizzazione, che trovò piena espressione nella maggiore delle sue opere, La nascita del mondo moderno in Asia Orientale, probabilmente il più importante libro sulla storia dell’Asia pubblicato da uno studioso ita­liano nella seconda metà del ‘900.[25]

In esso Borsa vedeva l’Asia fino al momento della conquista europea come un’area geografica socialmente statica, caratterizzata da un’economia di sussistenza, dove le città non erano particolarmente importanti e dove i flussi commerciali, anche se presenti, avevano una rilevanza del tutto secondaria. All’epoca in cui Borsa concepì e scrisse il suo magnum opus, cioè gli anni Sessanta e Settanta, questa visione era egemonica nel mondo scientifico non solo in Italia ma a livello internazionale e, in effetti, destinata a rimanere tale almeno fino agli anni Novanta (anche se progressivamente indebolita e contestata dai risultati delle ricerche che, a livello internazionale, presero l’avvio negli anni Settanta). Quindi, anche per Borsa – almeno per Borsa negli anni Settanta, dato che, in seguito, le sue idee subirono un’evoluzione[26]) – la conquista dell’Asia da parte delle potenze occidentali produsse una cesura con il passato e avviò la creazione del mondo moderno. Ma, a differenza della maggior parte degli studiosi suoi contemporanei (non solo italiani), Borsa vide la modernizzazione come un fenomeno molto complesso, ben lungi dal risolversi in un semplice “travaso”, compiuto dagli occidentali, del “moderno” in Asia. Non vi era dubbio, secondo Borsa, che l’azione condotta dall’alto dai colonizzatori avesse avviato la crisi irreversibile delle società asiatiche. Ma, sempre secondo Borsa (e in questo consisteva la parte veramente innovativa della sua teoria della modernizzazione), lo sviluppo successivo, cioè la nascita della modernità, era stata determinato non tanto dall’azione dei colonizzatori quanto dall’autonoma reazione delle società asiatiche all’aggressione occidentale.

Secondo Borsa, la prima reazione delle società asiatiche alla crisi indotta dall’aggressione o dalla conquista occidentale era stata duplice: da un lato vi era stato il rifiuto completo e incondizionato della civiltà occidentale; dall’altro l’accettazione – altrettanto completa ed incondizionata – di quella medesima civiltà. Come dimostrato da Borsa, entrambe le risposte si erano rivelate fallimentari; questo aveva quindi portato all’elaborazione di una terza risposta da parte degli intellettuali asiatici. Destinata, nel corso del tempo, a rivelarsi vincente, tale risposta si basava sulla sintesi fra il rifiuto puro e semplice e l’accettazione incondizionata della civiltà occidentale: gli intellettuali asiatici, in altre parole, si impadronirono degli strumenti metodologici dell’Europa e reinterpretarono le proprie rispettive tradizioni alla luce di tali strumenti.

Una parte importante del lavoro di ricostruzione condotto da tali intellettuali consistette nel far passare per una semplice riforma quella che, in realtà, era, a tutti gli effetti, una rivoluzione. Questi intellettuali, insomma, «dimostrarono», facendo uso delle metodologie scientifiche mutuate dall’Occidente e partendo dalla necessità di legittimare idee introdotte o reintrodotte sempre dall’Occidente, come, in realtà,  tali idee fossero già ben presenti nell’ambito delle proprie tradizioni storiche e culturali. Si trattava, cioè, di idee che, secondo gli intellettuali riformatori asiatici, lungi dall’essere un’importazione o un’imposizione da parte dell’Occidente, erano dimostrabilmente indigene.

Qualsiasi fosse la correttezza fattuale di una tale revisione (e, su questo, Borsa non si pronunciava), rimaneva il fatto che le nuove ideologie di sintesi – elaborate in tempi diversi nel corso dell’800 nei paesi asiatici – erano, in effetti, il prodotto di uno sforzo autonomo, coscientemente portato avanti dagli intellettuali asiatici, sia pure fra mille difficoltà. La modernità asiatica, anzi le modernità asiatiche (dato che il processo di modernizzazione variò da paese a paese sia nelle modalità sia nella cronologia), lungi dall’essere un semplice «travaso» da parte dell’Occidente, furono quindi figlie di un lungo e complesso sforzo di rielaborazione, il cui merito non va agli occidentali, bensì agli intellettuali asiatici.[27]

 

Giorgio Borsa e la storia del presente: la nascita di Asia Maior

Ci siamo soffermati sulla biografia scientifica e sul contributo di Borsa all’asiatistica italiana, soprattutto attraverso la formulazione della sua teoria della modernizzazione, per sottolineare il fatto che la sua opera scientifica, se anche muoveva dal costante interesse per le vicende politiche a lui contemporanee, era quella tipica di uno storico tradizionale. Criticato da alcuni suoi colleghi perché, alla storia basata sull’esame minuzioso delle fonti d’archivio, preferiva le «grandi narrative», Borsa pagò il suo pedaggio a questo tipo di storia con una serie di pubblicazioni, di cui, la più importante fu una monografia sui rapporti fra Italia e Cina, citata da Jean Chesneaux come un esempio di ricerca d’archivio iper-dettagliata.[28] In effetti, le critiche a Borsa, anche se basate su motivazioni che si presentavano come scientifiche, avevano un’altra origine. Giorgio Borsa, in effetti, si trovò ad operare in un mondo, quello dell’orientalismo italiano, segnato da severi limiti scientifici e culturali. L’orientalismo italiano prevalente nei primi decenni del secondo dopoguerra era infatti profondamente impregnato di conservatorismo metodologico e politico. Di qui la critica alle «grandi narrative» in cui si articolavano alcuni dei testi più importanti di Borsa (critica che, ovviamente, era fatta da studiosi che ignoravano la produzione secondo linee del tutto analoghe a quelle di Borsa da parte dei world historians della scuola di Chicago, iniziata negli anni Sessanta). Soprattutto, il mondo dell’orientalistica italiano rimaneva profondamente segnato e condizionato dalle sue compromissioni col Fascismo.[29] In questo contesto, Borsa e i suoi discepoli rappresentarono una cor­rente profondamente diversa da quella dominante. Si trattò di una corrente minoritaria, ma importante; non solo innovativa sul piano metodologico (almeno per quanto riguardava la situazione culturale italiana), ma, sia pure nelle evidenti differenze ideologiche che contraddistingue­vano i suoi membri, caratterizzata da una visione del mondo laica, progressista e antifascista.

Giorgio Borsa, quindi, diede un fondamentale contributo a spezzare il monopolio esercitato dall’orientalistica nell’ambito degli studi sull’Asia, aprendoli alla storiografia. Per certi versi una logica prosecuzione di tale rinnovamento metodologico fu, a partire dagli anni Novanta del ‘900, il tentativo di Borsa di estendere l’analisi storiografica dell’Asia al presente. Lo strumento di tale tentativo, come si è già detto, fu Asia Maior. Se anche Borsa trascurò di articolare la sua posizione a livello teorico, i volumi annuali diedero la dimostrazione pratica della possibilità e dell’utilità di analizzare il presente dell’Asia con gli strumenti tipici dello storico.

Nel corso di poco meno di un quarto di secolo, i vari autori di Asia Maior tracciarono la storia del presente di paesi come la Cina, il Giappone, l’India, il Pakistan, l’Indonesia e di una serie di altre nazioni minori dell’Asia Orientale (che, nell’accezione borsiana del termine, comprendeva l’Asia Monsonica). A partire dal primo decennio del secolo in corso, la rete si allargò a comprendere l’Afghanistan, l’Iran e una serie di paesi centro-asiatici.

Inizialmente i volumi annuali vennero pubblicati grazie all’appoggio dell’ISPI (Istituto per gli studi di politica internazionale) di Milano; nel 1994, tuttavia, vi fu una sorta di divorzio fra l’ISPI e Borsa (a dir la verità, non il primo nella storia dei rapporti fra i due); un evento che, in un primo tempo, sembrò destinato a porre prematuramente termine all’impresa. Nel 1995, tuttavia, le pubblicazioni ripresero, grazie all’appoggio del Ce­SPEE (Centro Studi per i Popoli Extra-Europei «Cesare Bonacossa»), dell’Università di Pavia.

 

La vicenda di Asia Maior

Borsa, quando lanciò «Asia Maior», aveva poco meno di ot­tant’anni (come si è già ricordato, era nato nel 1912); ciò nonostante, fino all’anno prima della sua morte (avvenuta nel 2002), svolse un ruolo di leadership intellettuale assolutamente dominante e indiscusso, scrisse i capitoli sulla Cina nei primi quattro volumi (fino a quello del 1994), svolse il ruolo di curatore del volume, in genere con l’aiuto di un suo disce­polo[30], e scrisse la prefazione di tutti i volumi fino a quello pubbli­cato alla vigilia della sua morte. La scomparsa di Borsa, per quanto dolorosa sul piano personale per i suoi discepoli e amici, non giunse inaspettata, non solo data la sua età, ma anche perché, circa un anno prima della sua morte, la sua salute aveva subìto un drastico peggio­ramento, tale da costringere Borsa ad una radicale riduzione della sua attività. Questo significa che un piccolo nucleo di collaboratori di «Asia Maior» si era da tempo preparato alla transizione, fra l’altro sviluppando, su impulso soprattutto di chi scrive, una sorta di leadership collettiva. Questa – che comprendeva Enrica Collotti Pischel, Corrado Molteni, Francesco Montessoro e chi scrive – negli ultimissimi anni della vita di Borsa, si era già fatta carico di sostituirlo in gran parte del lavoro di curatela (anche se l’ultima parola in casi controversi e l’onere di scrivere la presentazione del volume annuale rimasero a lui fino alla fine). Il fatto che alla morte di Borsa seguisse, di lì ad alcuni mesi, quella di Enrica Collotti Pischel rese la transizione più difficile, ma non insuperabile. Con l’appoggio del direttore del Ce­SPEE, Marco Mozzati (egli stesso un discepolo di Borsa), la pubbli­cazione del volume proseguì sotto la direzione di Corrado Molteni, di Francesco Mon­tessoro e di chi scrive.

A interrompere la prima serie di «Asia Maior» fu il fatto che nel 2005, dopo due successivi e rapidi cambiamenti al vertice del CeSPEE, il nuovo direttore, adducendo sopravvenute difficoltà fi­nanziare, manifestò l’indisponibilità del Centro a continuare la pub­blicazione di «Asia Maior» secondo le modalità e le scadenze fino a lì seguite. Quello che veniva proposto era un controllo più stretto da parte del Centro sui lavori di «Asia Maior» a cui si accompagnava una vaga disponibilità a pubblicare saltuariamente su «Il Politico», la rivista politologica dell’Università di Pavia, una selezione dei saggi che sarebbero stati prodotti dai membri del gruppo.

La proposta venne giudicata inaccettabile e portò alla deci­sione da parte del gruppo dei collaboratori «storici» di trasformare «Asia Maior» da associazione informale, quale era stata fino a quel momento, ad associazione formalmente registrata presso un notaio. Il fine era quello di ricercare finanziamenti da altre fonti, che per­mettessero la continuazione della pubblicazione del volume annuale, secondo le modalità volute da Borsa. Dato che la sigla «Asia Major» era stata registrata come proprietà dell’Università di Pavia, si decise di fare uso di una sigla lievemente diversa, quella di «Asia Maior».

La costituzione di «Asia Maior» in associazione formale av­venne il 5 ottobre 2005; a questo si accompagnò un generoso sup­porto finanziario offerto dal Ministero degli Esteri (MAE), che, nel 2006, permise la ripresa delle pubblicazioni con un volume doppio. Da allora la nuova serie ha regolarmente mantenuto la propria sca­denza annuale, anche se i finanziamenti da parte del MAE sono progressivamente diminuiti, fino a terminare del tutto nel 2009.[31]

 

La crisi di Asia Maior del 2010 e il suo superamento

La questione dei finanziamenti fu uno dei problemi che, una volta consumato il «divorzio» con il Centro Studi «Cesare Bonacossa» dell’Università di Pavia, Asia Maior dovette affrontare per poter sopravvivere. Ma, nel periodo successivo alla sua rifondazione nel 2006, vi fu un altro problema che prese corpo progressivamente, per poi esplodere con tale violenza da minacciare la scomparsa di Asia Maior o, quanto meno, la sua trasformazione in qualcosa di profondamente diverso dal progetto concepito a suo tempo da Giorgio Borsa.

Nel corso degli anni, alcuni dei discepoli di Borsa impegnati in Asia Maior scomparvero (Paolo Beonio-Brocchieri, Enrica Collotti Pischel) o, per una ragione o per un’altra, lasciarono Asia Maior (ad esempio, Simonetta Casci). Parallelamente, aumentò il numero dei membri di Asia Maior e dei collaboratori dei volumi annuali la cui formazione culturale non era stata influenzata dalle idee di Borsa. Sintomaticamente, alla crescente presenza di questa nuova tipologia di collaboratori corrispose un progressivo aumento delle richieste di cambiare prima la struttura del volume annuale poi gli obiettivi stessi di Asia Maior.

Le proposte variarono nel corso del tempo ma, sostanzialmente, ruotarono in maniera più o meno chiara intorno a due concetti: fare del volume una raccolta di saggi prevalentemente tematici; ripensare le tematiche dei saggi alla luce delle necessità e dei desiderata dell’imprenditorialità italiana. In pratica, coloro che formulavano queste idee proponevano di fatto l’abbandono del progetto politico-culturale formulato a suo tempo da Giorgio Borsa: all’obiettivo di comprendere la realtà effettuale dell’Asia contemporanea nei suoi aspetti politici ed economici, quali essi si manifestavano concretamente nei vari paesi di quell’area, si intendevano sostituire quelle che, in pratica, erano indagini di mercato, volte a soddisfare i desiderata di ipotetici «committenti» appartenenti al mondo imprenditoriale.

Nel porre in evidenza quali fossero gli obiettivi auspicati da quella che, per intenderci, possiamo definire l’ala «efficientista» di Asia Maior, non è che si voglia dire che le indagini di mercato sulla realtà asiatica siano inutili (sempre che, ovviamente, vi siano dei «committenti» ad esse interessati[32]). Si vuole solo ribadire che Asia Maior incarnava un progetto differente.

Ciò detto, bisogna sottolineare che, ancora dopo la scomparsa di Borsa e almeno fino al «divorzio» con il CeSPEE dell’Università di Pavia (cioè fino al 2005), il peso degli «efficientisti» nell’ambito di Asia Maior fu assai limitato. I loro ricorrenti tentativi di cambiarne la politica, quindi, furono tenuti sotto controllo senza particolari difficoltà.

Questa situazione fece da sfondo a quello che fu un conflitto largamente di carattere personale che esplose nel corso del 2010 fra chi scrive, nella sua qualità di presidente dell’associazione, e un collaboratore. A quest’ultimo, di professione giornalista, era stato affidato il compito precipuo di occuparsi delle relazioni con l’esterno e, soprattutto, della raccolta dei fondi necessari a mandare avanti le attività dell’associazione.

Il giornalista in questione cercò di tradurre l’influenza che gli derivava dall’essere il collettore dei fondi di Asia Maior nella posizione di effettivo dominus dell’associazione, anche a livello di decisioni di carattere scientifico. Per raggiungere questo obiettivo, il nostro giornalista si fece interprete non solo dell’ala efficientista, ma anche di un insieme di altri membri dell’associazione che, per una ragione o per un’altra, avevano assunto una posizione di larvato dissenso nei confronti della direzione scientifica di Asia Maior. In quasi tutti i casi si trattava di persone che erano collaboratori di vecchia data che, però, nel corso degli anni, avevano dimostrato un crescente lassismo nella scrittura dei saggi a loro affidati. In questa situazione, i curatori dei volumi si erano visti costretti ad un lavoro sempre più pesante di revisione. Del tutto irrazionalmente, tale lavoro, che suppliva alla trascuratezza di questi collaboratori, invece di essere da loro apprezzato (come sarebbe stato solo logico che avvenisse), aveva suscitato crescenti malumori in chi ne beneficiava. A loro volta, tali malumori si erano tradotti nella richiesta di un rilassamento delle stringenti norme formali imposte dai curatori del volume annuale agli estensori dei capitoli che lo componevano; una richiesta che era sempre stata respinta con fermezza dai curatori.

Fu quindi in questa situazione che il nostro giornalista diede inizio alla battaglia per il controllo di Asia Maior. Il suo obiettivo era quello di assumere il pieno controllo dell’associazione, sostituendosi al presidente in carica se non dal punto di vista formale (un’associazione scientifico-accademica formalmente capeggiata da un giornalista sarebbe stata poco credibile) quanto meno da quello sostanziale.       Le motivazioni della battaglia per Asia Maior furono quindi essenzialmente (e, ad un certo punto, anche dichiaratamente) personali.[33] Tuttavia, se pur prevalentemente inespresse, le cause scientifiche della battaglia per Asia Maior esistevano ed erano d’importanza cruciale. È per questo, quindi, che, in questa sede, si è ritenuto necessario soffermarsi, sia pure in maniera sintetica, sullo scontro in questione.

In primo luogo bisogna sottolineare il fatto, già ricordato, che, al fine di solidificare il proprio seguito all’interno dell’associazione, il nostro giornalista si pose come interprete del progetto degli «efficientisti». Già questo, nel caso di una sua vittoria, avrebbe radicalmente cambiato la configurazione di Asia Maior. Ma vi era un altro problema, potenzialmente ancora più rilevante per il futuro di Asia Maior: l’intenzione, cioè, del nostro giornalista di inserire come nuovi collaboratori, incaricati anche di paesi chiave, un certo numero di suoi colleghi. [34] Da questo punto di vista era stato significativo il tentativo (fallito), da lui pervicacemente portato avanti fin dalla rifondazione di Asia Maior, di affidare l’incarico di scrivere il capitolo sulla Cina – in definitiva il più importante dell’intero volume – ad una giornalista sua sodale. Quest’ultima, per quanto indubbiamente una buona professionista nell’ambito che le era proprio, cioè quello giornalistico, era visibilmente carente, a giudizio di chi scrive, degli strumenti metodologi per affrontare con successo un compito così impegnativo come quello di condurre un’analisi di tipo scientifico su un paese della complessità della Cina.

Lo scontro per il controllo di Asia Maior si sviluppò fra l’inizio del marzo e la fine del maggio 2010, assumendo toni di estrema asprezza, per poi giungere alla svolta decisiva in una cruciale assemblea generale tenutasi a Torino il 29 maggio 2010. In quella sede, il giornalista e i suoi amici vennero sconfitti di stretta misura, ma, come a volte accade per le battaglie vinte o perse di stretta misura, in maniera decisiva.

Piuttosto che riconciliarsi con i vincitori, gli sconfitti finirono per decidere di uscire dall’associazione, ciò che fecero in massa alla fine di ottobre. L’esodo in questione si verificò così tardi nel corso dell’anno che, normalmente, avrebbe dovuto creare gravi difficoltà nella preparazione del nuovo volume o quanto meno, nella sua preparazione nei tempi prefissati. Ma così non fu e, in definitiva, più che una crisi l’esodo appena ricordato si rivelò un’opportunità di rinnovamento, che venne colta con prontezza da chi scrive e da chi collaborava con lui.

In proposito è sufficiente ricordare che il primo volume pubblicato dopo la crisi era di livello qualitativo e quantitativo dimostrabilmente e decisamente superiore all’ultimo volume pubblicato prima della crisi.[35] Non solo chi aveva abbandonato Asia Maior era stato sostituito, ma il numero complessivo dei collaboratori era aumentato. Chiaramente, inoltre, una serie di capitoli, in particolare quelli sull’Afghanistan, sul Myanmar, sull’Indonesia e sulle Coree, i cui autori erano cambiati rispetto al 2010, erano di livello qualitativo decisamente superiore rispetto agli anni precedenti.

 

Conclusione

    A conclusione di quanto fin qui detto, vale la pena di ribadire che, se la battaglia per Asia Maior fosse andata diversamente, l’esperimento voluto da Giorgio Borsa di avviare una tradizione di studi sulla storia del presente dell’Asia avrebbe subìto una pesante battuta d’arresto. Il declino del profilo scientifico di Asia Maior, infatti, avrebbe screditato l’intero progetto, fornendo credibili motivi di critica a quelle parti del mondo accademico che, per preconcetto ideologico, tale progetto avevano avversato da sempre.

Le cose, fortunatamente, andarono diversamente. In definitiva, come notato ex post da uno dei protagonisti di quella battaglia, l’intera vicenda, per quanto dolorosa sul piano personale, aveva offerto «l’opportunità di rinnovare, ringiovanire e riunire il gruppo [di Asia Maior] attorno al progetto originale di Borsa»

Tutto ciò, a sua volta, diede agio al rinnovato gruppo di Asia Maior di aprire un dibattito su come promuovere a livello accademico il riconoscimento della dignità scientifica della storia del presente. Perché – è inutile nasconderselo – le riserve nell’ambito dell’accademia italiana sia sulla possibilità di studiare il presente come storia sia sul valore scientifico degli studi prodotti in tale settore rimangono alte.

Come si è notato, il mancato avvio di un dibattito teorico sulla questione della storia del presente è stato il limite più evidente nell’azione di rinnovamento degli studi storici sull’Asia, portata avanti da Giorgio Borsa. È però un limite il cui superamento è ora diventato uno degli obiettivi perseguiti dal circolo di studiosi raccolti in Asia Maior. Un primo risultato in questo senso è rappresentato dalla finalizzazione di un articolo di natura teorica, ad opera di chi scrive, intitolato La storia del presente: una nota metodologica. L’articolo in questione è in corso di pubblicazione (la data prevista è l’autunno 2013) su una vecchia e prestigiosa rivista accademica, quale «La nuova rivista storica».     La sua pubblicazione, ovviamente, è solo un primo passo in una strategia volta a suscitare un più ampio dibattito sulla questione della storia del presente nell’ambito della comunità degli storici accademici. Fare questo passo e quelli successivi è un impegno in cui si riconoscono quei discepoli di Giorgio Borsa che sono rimasti fedeli alla sua eredità politico-culturale e quei giovani studiosi che, anche se a volte provenendo da altre scuole, si riconoscono in tale eredità e ne accettano il valore.

 

 

APPENDICE 1

QUALI E QUANTE «ASIA MAJOR»?

I volumi annuali pubblicati da Asia Maior, l’associazione informale (in altre parole tutti i volumi della serie fino a quello che copriva l’anno 2004), portarono sempre nel titolo o, a partire dal secondo volume della serie, nel sottotitolo la dizione «Asia Major», con la «j». Secondo Marco Mozzati, uno degli allievi di Borsa, anche se un africanista, la trasformazione della «i» di «Maior» in «j» fu frutto di un errore tipografico com­piuto dalla casa editrice «il Mulino» in occasione della pubblicazione del primo volume. In seguito, per ragioni di continuità, Borsa avrebbe deciso di proseguire nell’utilizzo della nuova grafia. Questa spiegazione, però, non tiene conto del fatto che era abitudine di Borsa utilizzare la grafia con la «j» già molto prima della pubblicazione del primo volume di «Asia Maior». Questo risulta in maniera incontrovertibile dalla Prefazione del suo La nascita del mondo moderno cit., p. 7 («È questo il caso dell’Asia major nell’ultimo trentennio…»). D’altra parte è innegabile, come può testimo­niare chi scrive, che l’«Asia Maior» era definita da Borsa come quella parte di Asia che esisteva oltre l’«Asia Minor» degli antichi. In altre parole, il termine «Asia Maior» derivava dal riferimento ad una definizione geografica in uso nel mondo classico greco-romano; la «j», tuttavia, non compare né nell’alfabeto greco, né in quello latino. È quindi probabile che l’utilizzo della grafia «Asia Major» sia stata frutto di un errore dello stesso Borsa, dovuto all’ingresso inavvertito nel suo lessico di un inglesismo. La spiega­zione data da Marco Mozzati va quindi rettificata nel senso che l’errore vi fu, ma fu commesso da Borsa.

È possibile che Borsa – che, del resto, era in genere molto attento ad evitare gli inglesismi – si sia poi reso conto che la dizione «Asia Major» non fosse corretta, ma che, come riferito da Mozzati, decidesse di continuare ad usarla per ragioni di continuità. In effetti, la scelta in questione era criticabile anche da un altro punto di vista, cioè in base al fatto che esisteva già un’altra «Asia Major». «Asia Major», infatti, era – ed è – anche il titolo di una rivista, dedi­cata allo studio della Cina e del mondo cinese, fondata nel 1923, in Germania, da Bruno Schindler (1882-1964). Tale rivista venne lì pubblicata fino al 1933, quando le leggi razziali costrinsero Schindler (che era un ebreo) a fuggire dalla Germania e a porre fine alla prima serie della sua «Asia Major». La pubblicazione venne ripresa dallo stesso Schindler in Inghilterra, a partire dal 1949, sotto gli auspici dell’Università di Cambridge, e continuò anche dopo la morte del suo fondatore, fino al 1975. In quell’anno, le difficoltà economiche che colpirono il mondo universi­tario britannico posero fine alla seconda serie della rivista. Questa, però, venne ripresa nel 1988 da Denis Twitchett, sotto gli auspici dell’Università americana di Princeton. Essa, quindi, era regolarmente pubblicata quando venne inaugu­rata l’«Asia Major» italiana. Nel 1998, di nuovo a causa di difficoltà economiche, la pubblicazione dell’«Asia Major» fondata da Schindler passò all’Institute of Hi­story and Philology dell’Academia Sinica di Taipei, dove, da allora, è continuata sotto la guida di Tu Cheng-sheng, il direttore dell’Istituto. Nel circolo dei più stretti collaboratori di Borsa, posso testimoniare che Paolo Beonio Brocchieri (che curò insieme a Borsa i primi volumi di «Asia Maior») era al cor­rente dell’esistenza di un’altra «Asia Major», ragion per cui non poteva non es­serne al corrente anche lo stesso Borsa.

Ma la storia del’etichetta «Asia Major» non finisce qui. Il nome in questione venne registrato come un marchio di proprietà dell’Università di Pavia. Non è ben chiaro all’autore di queste righe come ciò sia stato possibile, dato che, come si è visto, esisteva già un’altra «Asia Major». Forse la spiegazione consiste nel fatto che una delle due «Asia Major» era una rivista, mentre l’altra, quella pavese, era una serie di volumi monografici. Sia come sia, dopo la decisione del CeSPEE di non finanziare più «Asia Major» e la conseguente nascita di «Asia Maior» (con la «i» semplice), è interessante notare, anche se duole doverlo fare, che il CeSPEE dell’Università di Pavia, che si era dichiarato inabile a mandare avanti la vecchia «Asia Major» a causa della mancanza di risorse economiche, trovò allora i finanziamenti neces­sari a riprendere le pubblicazioni, iniziando un’altra serie di «Asia Major». Questa manteneva il nome della vecchia serie, ma si discostava totalmente dall’«Asia Major» di Giorgio Borsa, sia nell’impostazione sia nell’area geografica di riferimento. Senza che fosse spesa una parola né per giustificare la decisione in questione, né per evidenziare una possibile motivazione scientifica per un cambiamento del genere, l’area geografica di riferimento diventava la totalità dell’Asia più l’intera Africa. Dal punto di vista dei contenuti, la nuova Asia Major pavese divenne una sorta di contenitore dove si pubblicavano gli atti di convegni (come nel caso del primo numero) o saggi collegati da un tenue tema comune. La nuova Asia Major pavese comparve per alcuni anni ma, al momento, sembra aver interrotto le proprie pubblicazioni. In ogni caso è legittimo chiedersi perché sia stata utilizzata l’etichetta di «Asia Major» per una serie che, ormai, non aveva il sia pur minimo collegamento con quella ideata da Giorgio Borsa.

 

 

APPENDICE 2

BIBLIOGRAFIA DEI VOLUMI PUBBLICATI DA ASIA MAIOR

1) Giorgio Borsa e Paolo Beonio-Brocchieri (a cura di), Asia Major. Un mondo che cambia, Ispi/il Mulino, Bologna 1990;

2) Giorgio Borsa e Paolo Beonio-Brocchieri (a cura di), L’Altra Asia ai margini della bufera. Asia Major 1991, Ispi/il Mulino, Bologna 1991;

3) Giorgio Borsa (a cura di), Le ultime trincee del comunismo nel mondo. Asia Major 1992, Ispi/il Mulino, Bologna 1992;

4) Giorgio Borsa (a cura di), La fine dell’era coloniale in Asia Orientale. Asia Major 1993, Ispi/il Mulino, Bologna 1993;

5) Giorgio Borsa e Enrica Collotti Pischel (a cura di), Luci e ombre sullo sviluppo in Asia Orientale. Asia Major 1994, CSPEE/il Mulino, Bologna 1994;

6) Giorgio Borsa e Giovanna Mastrocchio (a cura di), Tra Democrazia e neoautoritarismo. Asia Major 1995, CSPEE/il Mulino, Bologna 1995;

7) Giorgio Borsa e Giovanna Mastrocchio (a cura di), Integrazione regionale e ascesa internazionale. Asia Major 1996, CSPEE/il Mulino, Bologna 1996.

8) Giorgio Borsa (a cura di), Continua il miracolo asiatico? Asia Major 1997, CSPEE/il Mulino, Bologna 1997;

9) Giorgio Borsa (a cura di), L’Asia tra recessione economica e minaccia nucleare. Asia Major 1998, CSPEE/il Mulino, Bologna 1998;

10) Giorgio Borsa e Michelguglielmo Torri (a cura di), L’incerta vigilia del nuovo secolo in Asia. Asia Major 1999, CSPEE/il Mulino, Bologna 1999;

11) Giorgio Borsa, Corrado Molteni e Francesco Montessoro (a cura di), Crescita economica e tensioni politiche in Asia all’alba del nuovo millennio. Asia Major 2000, CSPEE/il Mulino, Bologna 2000;

12) Giorgio Borsa, Corrado Molteni e Francesco Montessoro (a cura di), Trasformazioni politico-istituzionali nell’Asia nell’era di Bush. Asia Major 2001, CSPEE/il Mulino, Bologna 2001;

13) Elisa Giunchi, Corrado Molteni e Michelguglielmo Torri (a cura di), L’Asia prima e dopo l’11 settembre. Asia Major 2002, CSPEE/il Mulino, Bologna 2003;

14) Corrado Molteni, Francesco Montessoro e Michelguglielmo Torri (a cura di), Le risposte dell’Asia alla sfida americana. Asia Major 2003, CSPEE/Bruno Mondadori, Milano 2004;

15) Corrado Molteni, Francesco Montessoro e Michelguglielmo Torri (a cura di), Multilateralismo e democrazia in Asia. Asia Major 2004, Bruno Mondadori, Milano 2005;

16) Michelguglielmo Torri (a cura di), L’Asia negli anni del drago e dell’elefante 2005-2006. L’ascesa di Cina e India, le tensioni nel continente e il mutamento degli equilibri globali (Asia Maior 2005-06), Guerini e Associati, Milano 2007;

17) Michelguglielmo Torri (a cura di), L’Asia nel «grande gioco». Il consolidamento dei protagonisti asiatici nello scacchiere globale (Asia Maior 2007), Guerini e Associati, Milano 2008;

18) Michelguglielmo Torri e Nicola Mocci (a cura di), Crisi locali, crisi globali e nuovi equilibri in Asia (Asia Maior 2008), Guerini e Associati, Milano 2009;

19) Michelguglielmo Torri e Nicola Mocci (a cura di), L’Asia di Obama e della crisi economica globale (Asia Maior 2009), Guerini e Associati, Milano 2010;

20) Michelguglielmo Torri e Nicola Mocci (a cura di), Ripresa economica, conflitti sociali e tensioni geopolitiche in Asia (Asia Maior 2010), I libri di Emil, Bologna 2011;

21) Michelguglielmo Torri e Nicola Mocci (a cura di), L’Asia nel triangolo delle crisi giapponese, araba ed europea (Asia Maior 2011), I libri di Emil, Bologna 2012;

22) Michelguglielmo Torri e Nicola Mocci (a cura di), Rallentamento dell’economia e debolezza della politica in Asia (Asia Maior 2012), I libri di Emil, Bologna 2013.

 

 

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[1] A Napoli, nel 1732, venne istituito quel «Collegio dei Cinesi» che fu la prima scuola di sinologia d’Europa, da cui doveva poi nascere l’Istituto Universitario Orientale. D’altra parte, la prima cattedra di sanscrito, tenuta da Gaspare Gorresio, fu creata presso l’Università di Torino nel 1852. Sono debitore a Nicola Mocci per avere richiamato la mia attenzione sul «Collegio dei Cinesi» e a Noel Mottais per avermi ricordato la data dell’inizio dell’insegnamento di Gorresio a Torino.

[2] Bisogna però rilevare che, soprattutto in seguito alla percezione dell’ascesa economica dell’India e dell’integrazione della sua economia con quella mondiale a partire dalle riforme neoliberiste del 1991, vi è stata una crescita d’interesse da parte degli economisti italiani per l’India. A questo interesse ha fatto riscontro una produzione che, per quanto diseguale, ha punte di autentica eccellenza scientifica. Esemplare, da quest’ultimo punto di vista, la recente monografia di Elisabetta Basile, Capitalist Development in India’s Informal Economy, Routledge, Londra 2013.

[3] Una storia dell’asiatistica italiana non è stata ancora fatta. Per un’analisi di una sua branca, cioè l’indianistica, si rimanda a Michelguglielmo Torri, Studies in Italy on Modern and Contemporary India, in «Storia della Storiografia/History of Historiography», 34, 1998, pp. 119-51.

[4] In proposito si veda l’Appendice 1 al presente scritto.

[5] La formulazione più completa della teoria delle modernizzazione elaborata da Gior­gio Borsa è stata fatta nel suo La nascita del mondo moderno in Asia Orientale, Rizzoli, Milano 1977.

[6] Ad es. ibid., p. 10.

[7] Per le idee di Giorgio Borsa sul metodo storico, si veda il suo Introduzione alla storia, Le Monnier, Firenze 1980. Chi scrive ha anche tenuto conto di una serie di conversazioni con Borsa su tale soggetto, svoltesi nel periodo successivo alla pubblicazione del libro appena citato.

[8] Su Mario Borsa si veda Pier Giorgio Zunino, La Repubblica e il suo passato, il Mu­lino, Bologna 2003, pp. 510-13.

[9] In una conversazione con chi scrive, dicembre 2010.

[10] Queste informazioni, raccolte da Pier Giorgio Zunino, nell’ambito di una ricerca volta alla preparazione dell’edizione critica dell’epistolario di Piero Martinetti, e da lui comunicate a chi scrive nel corso di una serie di conversazioni durante il 2010, sono ora riassunte nella nota in calce all’ultima lettera di Piero Martinetti, posta a chiusura dell’epistolario. Si veda Piero Martinetti, Lettere 1919-1943, a cura di Pier Giorgio Zunino e Giulia Beltrametti, Olschki, Firenze 2011, pp. 245-46 e nota 167. In realtà l’ultima lettera di Martinetti non è che un fram­mento di una missiva indirizzata dal filosofo a Giorgio Borsa, frammento che ci è pervenuto solo perché Borsa lo cita nella sua introduzione ad una raccolta di scritti di Martinetti da lui curata.

[11] Giorgio Borsa, Gandhi, Bompiani, Milano 1983, p. 9.

[12] Così come meritano di essere ricordati i nomi degli altri 11 (sui 1.225 professori universitari dell’epoca): Ernesto Buonaiuti, Mario Carrara, Gaetano De Sanctis, Giorgio Errera, Giorgio Levi Della Vida, Fabio Luzzatto, Bartolo Nigrisoli, Edo­ardo e Francesco Ruffini, Lionello Venturi, Vito Volterra. Accanto a costoro vi fu poi un certo numero di professori che rifiutarono il giuramento ma furono dispensati e altri ancora che, per non giurare, scelsero il prepensionamento.

[13] Giorgio Borsa, Gandhi e il risorgimento indiano, Milano, Bompiani 1942.

[14] Ibid., p. 299 e nota 1. «Egli [Gandhi] – scriveva Borsa – ha intuito, forse senza neppure rendersene conto, quali sono le ragioni profonde della crisi in cui si di­batte la civiltà occidentale e ha fatto molto per preservare l’India dallo stesso pe­ricolo. Ha intuito che l’attuazione di un ordine sociale e politico giusto e duraturo non dipende dalla riforma di questo o di quell’istituto, dall’adozione di questa o quella teoria economica, dal maggiore o minore benessere materiale raggiunto; ma dalla risurrezione o dalla morte definitiva di un ordine spirituale nell’intimo delle coscienze, dalla capacità dei popoli ad esprimere da sé ancora una volta quelle energie ideali in cui risiede la verità più profonda degli istituti sociali e politici e delle forme del vivere civile.» Questo giudizio, come indicato in nota, era basato su «P. Marti­netti, Saggi e discorsi, Paravia, [Torino] 1926, p. 62».

[15] Piero Martinetti, Il compito della filosofia e altri saggi inediti ed editi, con introdu­zione e commento di Giorgio Borsa, Paravia, Torino 1951.

[16] Cit. in Borsa, «Introduzione», ibidem, p. XII. La lettera era stata scritta da Martinetti a Borsa. Questo frammento è posto a chiusa dell’epistolario curato da Zunino e Beltrametti.

[17] Ibidem, p. X.

[18] Diego Fusaro, Piero Martinetti (http://www.filosofico.net/martinetti.htm). Quell’«evidentemente» fa riferimento all’indisponibilità di Martinetti a limitare la propria libertà di giudizio accettando le indicazioni di un partito o di una chiesa.

[19] Piero Martinetti, Il sistema Sankhya. Studio sulla filosofia indiana, Lattes, Torino 1896. Gli indologi utilizzano la grafia «Sāṃkhya», a cui ci atteniamo nel testo. Per chi fosse interessato ad un’introduzione a questo sistema filosofico, si rimanda all’agile e brillante testo di Raffaele Torella, Il pensiero dell’India. Un’introduzione, Carocci, Roma 2013 (1ª ed. 2008), pp. 63-74.

[20] Borsa, «Introduzione» cit., p. XI, dove si fa riferimento al Breviario spirituale di Mar­tinetti (Libreria Ed. Lombarda, Milano 1929, p. 23).

[21] Fusaro, Martinetti cit.

[22] Anche se Borsa non perse mai l’interesse per la filosofia, che riprese a studiare in modo sistematico una volta raggiunta l’età della pensione.

[23] Le sue due più importanti monografie di quel periodo furono L’ Estremo Oriente fra due mondi: le relazioni internazionali nell’Estremo Oriente dal 1842 al 1941, La­terza, Bari 1961, e Italia e Cina nel secolo XIX, Edizioni di Comunità, Milano 1961.

[24] In effetti, l’ultima monografia da lui pubblicata fu una ricerca di relazioni inter­nazionali. Si veda Giorgio Borsa, Dieci anni che cambiarono il mondo, 1941-1951: storia politica e diplomatica della guerra nel Pacifico, Corbaccio, Milano 1995.

[25] Borsa, La nascita del mondo moderno cit.

[26] Com’è chiaro soprattutto dall’analisi condotta in Giorgio Borsa, Recent Trends in Indian Ocean Historiography, 1500-1800, in Id. (a cura di), Trade and Politics in the Indian Ocean: Historical and Contemporary Perspectives, Manohar, New Delhi 1990, ristampato in Id. Europa e Asia fra modernità e tradizione, Franco Angeli, Milano 1994, pp. 185-198.

[27] Per un approfondimento della teoria di Borsa sulla modernizzazione, si vedano: Torri, Studies in Italy on Modern and Contemporary India cit., pp. 119-51; id., L’Indianistica italiana dagli anni Quaranta ad oggi, in Agostino Giovagnoli e Giorgio Del Zanna (a cura di), Il mondo visto dall’Italia, Guerini, Milano 2004, pp. 247-263; e id., Eu­rocentrismo, asiacentrismo e orientalismo. La critica di Giorgio Borsa, in «Contempora­nea», XI, 1, gennaio 2008, pp. 115-122.

[28] Borsa, Italia e Cina nel secolo XIX cit. La citazione di questo lavoro di Borsa come esempio di opera storica basata su una minuziosa ricerca d’archivio è in Jean Chesnaux, L’Asia orientale nell’età dell’imperialismo : Cina, Giappone, India e Sud-Est asiatico nei secoli XIX e XX, Einaudi, Torino 1972 (ed. or. L’Asie orientale aux xixe et xxe siècles, PUF, 1966).

[29] Ben evidenti anche nel caso del più eminente fra gli orientalisti italiani, Giu­seppe Tucci (Macerata, 5 giugno 1894 – San Polo dei Cavalieri, 5 aprile 1984). Sulla figura di Tucci e sulle sue compromissioni col Fascismo si veda Enrica Garzilli, L’esploratore del Duce. Le avventure di Giuseppe Tucci e la politica italiana in Asia da Mussolini a Andreotti. Con il carteggio di Giulio Andreotti, Le Lettere, Firenze 2012, 2 voll.

[30] Nei primi due volumi, il co-curatore fu Paolo Beonio Brocchieri, che Borsa consi­derava il proprio erede. Disgraziatamente, Beonio Brocchieri, nato nel 1934, scomparve prematuramente nel 1991. Successivamente Borsa si valse della collaborazione di Enrica Collotti Pischel (un volume), Giovanna Mastrocchio (due volumi), Michelguglielmo Torri (un volume), Corrado Molteni e Francesco Montessoro in tandem (due volumi).

[31] Dopo il venir meno dell’appoggio economico del Mini­stero degli Esteri, il tentativo di ottenere sovvenzioni da altre fonti si rivelò difficile. Al di là della retorica sulla crescente importanza dell’Asia e sulla necessità per l’Italia di agganciarsi alle nuove locomotive economiche, rap­presentate da paesi quali la Cina e l’India, la risposta del mondo imprendito­riale italiano alle richieste di finanziamento da parte di Asia Maior fu la chiara dimostrazione di come la ricerca sia da esso considerata, a tutti gli effetti, un orpello inutile. Si può anche indossarlo, se lo si può fare a titolo gratuito; ma, chiaramente, è qualcosa per cui non merita di spen­dere, neppure cifre che, paragonate ai bilanci complessivi di alcune delle organizzazioni a cui «Asia Maior» si è rivolta, non sono nulla di più che gocce d’acqua in un oceano. Solo recentemente, ad opera di un’importante fondazione di Torino, la Compagnia di San Paolo, e di un paio di altri enti assai meno ricchi (il Lions Club di Saluzzo-Pinerolo e la Fondazione «Luca Raggio» di Cagliari), Asia Maior è riuscita a procurarsi i fondi indispensabili per continuare le proprie attività (fondi che, per alcuni anni, erano pervenuti esclusivamente dall’autofinanziamento da parte dei soci).

[32] Si veda, in proposito, la nota precedente. Chi scrive può dare una testimonianza diretta di come, nei fatti, l’atteggiamento di enti quali la Confindustria e l’ENI nei confronti di attività di ricerca volte ad approfondire la conoscenza della situazione politica ed economica dell’Asia sia stato e continui ad essere caratterizzato da una totale mancanza d’interesse.

[33] Sintomaticamente, chi scrive non venne mai accusato di carenze dal punto di vista scientifico, ma, nelle parole del nostro giornalista, di essere «un cattivo leader». Chi scrive ha accuratamente conservato tutte le email che intercorsero fra i soci e i verbali delle riunioni che si tennero in quel periodo, tanto che è in grado di documentare con precisione e al di là di qualsiasi possibile contestazione ogni singola affermazione da lui fatta sulla battaglia per Asia Maior.

[34] A questo punto è necessario sottolineare con la massima enfasi che chi scrive – come del resto Giorgio Borsa – non ha e non ha mai avuto nessuna preclusione a priori nei confronti dei giornalisti. Chi scrive conosce, apprezza e ha talvolta utilizzato nei suoi corsi universitari le opere di natura scientifica di giornalisti come Alain Gresh, Prem Shankar Jha, Patrick Seale e Lorenzo Trombetta. Questo per la semplice ragione che Gresh, Jha, Seale e Trombetta sono autori di serie analisi scientifiche e, non a caso, hanno alle spalle una solida preparazione accademica. Insomma sono tutti studiosi che, se così avessero deciso, avrebbero potuto intraprendere con successo una normale carriera universitaria in qualsiasi sistema universitario aperto al merito. Non è un caso che sia nella vecchia Asia Maior diretta da Borsa, sia nella nuova Asia Maior uscita dalla crisi del 2010, abbiano continuato ad essere attivi alcuni giornalisti, autori di saggi di buon livello. Il problema – oggi come al tempo di Borsa – è trovare giornalisti che abbiano le carte in regola dal punto di vista scientifico per scrivere, appunto, saggi di natura scientifica. Questa non sembra essere mai stata una priorità per il giornalista aspirante dominus di Asia Maior.

[35]  Il volume quello che copriva il 2009, uscito all’inizio del 2010, era formato da una premessa e da 13 capitoli, sull’arco di 295 pagine; il volume del 2010, uscito con perfetta puntualità all’inizio del 2011, era formato da due premesse (una scritta espressamente per ricostruire la storia di Asia Maior e per celebrare il fatto che il volume fosse il ventesimo della serie) e da 18 capitoli sull’arco di 376 pagine.

 

Giorgio Borsa as a young man

Giorgio Borsa as a young man

Giorgio Borsa

The Founder of Asia Maior

Università di Pavia

The "Cesare Bonacossa" Centre for the Study of Extra-European Peoples