L’elezione di Benigno Aquino alla presidenza delle Filippine: finalmente una svolta?
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1. Introduzione
Anno importante (per il futuro immediato ma anche per quello più lontano), il 2010, per le Filippine, che il 10 maggio sono state chiamate a eleggere il loro quindicesimo presidente della Repubblica (il sesto da quando è caduta la dittatura di Ferdinando Marcos). Si è trattato di un voto particolarmente significativo per due ordini di motivi, legati entrambi all’eredità della presidenza uscente, guidata da Gloria Macapagal Arroyo.
In primo luogo, per la particolare sensibilità della democrazia filippina alla necessità di un chiaro e certo avvicendamento al vertice dello stato. Nonostante infatti sia trascorso quasi un quarto di secolo dalla caduta del regime di Marcos, è ancora vivo nel paese il ricordo degli avvenimenti che condussero il dittatore, regolarmente eletto una prima volta nel 1965, a insediarsi stabilmente al potere per oltre un ventennio, instaurando la legge marziale e liquidando le opposizioni interne.
Per questo motivo la costituzione filippina prevede che il presidente della repubblica non possa restare in carica per più di un solo mandato (di sei anni), potendosi eventualmente ricandidare dopo avere saltato un turno.
Gloria Macapagal Arroyo ha però interpretato a proprio vantaggio questa regola. Poiché infatti, nel 2001, aveva assunto la carica di capo dello stato subentrando – da vice presidente – a Joseph Estrada (travolto dalle accuse di corruzione, distrazione di fondi e collusione con gli organizzatori del gioco d’azzardo), tre anni dopo ha ottenuto l’autorizzazione a candidarsi alle elezioni presidenziali (che poi vinse tra vibranti contestazioni). La Arroyo ha quindi governato per nove anni consecutivi, creando un precedente assai negativo e stimolando energici anticorpi nell’elettorato filippino.
Il secondo motivo che ha reso particolarmente importanti le elezioni di maggio è stato il fatto che il governo uscente ha concluso il proprio mandato arrancando sotto il peso di vaste accuse di corruzione, senza avere raggiunto nessuno degli obiettivi che si era posto. La popolazione, già prostrata dalle difficoltà economiche, era quindi in uno stato di vera esasperazione, per la mancanza di prospettive di miglioramento della situazione e considerava la consultazione elettorale come l’opportunità per una svolta.
2. L’elezione di Noynoy
Tenendo conto di ambedue queste istanze (consolidamento della democrazia e questione morale), il verdetto delle urne non poteva essere più chiaro, sia per il profilo del vincitore, sia per gli argomenti sui quali egli ha costruito il proprio programma elettorale. Il nuovo presidente è infatti Benigno Aquino III, detto Noynoy, figlio di due eminenti figure della democrazia filippina: Benigno e Corazon Aquino.
Il senatore liberale ha ottenuto il 40,19% delle preferenze (pari a 15,2 milioni di voti), superando la concorrenza dell’ex presidente Joseph Estrada (vera sorpresa del voto) e del miliardario «self-made-man» Manuel Villar, già presidente del congresso (la camera bassa del parlamento di Manila) ed esponente del Partito Nazionalista, fermi rispettivamente al 25,5% e al 14,2%. Nelle Filippine il presidente viene eletto in un unico scrutinio e a maggioranza semplice.
Tra gli altri candidati, va registrato il successo ottenuto da Imelda Marcos, ottuagenaria vedova dell’ex dittatore (morto in esilio nel 1989) che già si era candidata alle elezioni presidenziali del 1992 e che ha ottenuto un seggio al congresso. Al senato è stato invece eletto il figlio Ferdinando junior, detto «Bong Bong», mentre la figlia Imee ha ottenuto la carica di governatrice di Ilocos nord (la roccaforte elettorale dei Marcos).
Altro segno dell’importanza che i filippini hanno attribuito alla consultazione elettorale è stata l’affluenza alle urne. Stando ai dati riferiti dal ministero degli Affari interni, ha espresso il proprio voto il 75% dei 50 milioni di aventi diritto [W/AT 15 maggio 2010, «Elezioni: Aquino si appresta a essere il nuovo presidente delle Filippine»]. In occasione di queste elezioni, tra l’altro, sono state utilizzate per la prima volta le tecnologie elettroniche per la registrazione dei voti, nel tentativo di garantire maggiore regolarità alle elezioni. Il problema dei brogli elettorali è sempre stato una piaga aperta per la democrazia filippina, tanto che in passato nessun successo elettorale, locale o nazionale che fosse, ha mai potuto dirsi esentato da sospetti e ombre.
Il sistema ha incontrato forti resistenze e diffuse critiche ma in generale l’esperimento può dirsi riuscito. Nonostante alcuni problemi tecnici, che sono stati risolti e superati, il voto elettronico ha consentito di svolgere celermente le operazioni di scrutinio e nel giro di 48 ore la commissione elettorale ha potuto proclamare i risultati completi e definitivi.
3. Nascita di una dinastia (liberale)?
Dopo diciotto anni, con Benigno Aquino III, un membro della famiglia Aquino è quindi tornato alla guida del paese.
Il padre del neo presidente, Benigno Aquino Jr. (detto Ninoy) è considerato l’eroe nazionale delle Filippine contemporanee. Discendente di una ricca famiglia di hacienderos (proprietari terrieri), fiero oppositore democratico del dittatore Marcos, era stato assassinato nel 1983 all’aeroporto di Manila (che oggi porta il suo nome) da sicari che non sono mai stati identificati e condannati.
La madre di Noynoy, Corazon «Cory» Aquino, raccolse l’eredità politica del marito, ponendosi come riferimento del movimento rivoluzionario «People Power» che portò, nel 1986, alla caduta del regime e alla sua elezione a palazzo Malacanang (sede della presidenza della repubblica, dove però Cory non andò mai a risiedere, così come ha detto di voler fare Noynoy). Morta d’infarto nell’agosto del 2009, Corazon Aquino è al fianco del marito nell’immaginario popolare come emblema della democrazia filippina.
Benigno III è perfettamente consapevole di quanto debba ai propri genitori in termini di prestigio e di credibilità politica e non ha mancato di rendere loro omaggio nel proprio discorso d’insediamento, proponendosi come il continuatore della loro opera: «Mio padre ha dato la vita per fare tornare la democrazia nel nostro paese; mia madre ha dedicato la propria esistenza a fare crescere questa stessa democrazia; io mi propongo di fare in modo che i beneficï della loro opera possano essere estesi a tutti i filippini» [W/CSM 30 giugno 2010, «Benigno Aquino inaugurated as Philippines president»].
L’elezione di Benigno Aquino può essere realmente considerata un paradosso. Cinquantenne, laureato in economia, scapolo e senza figli, di carattere riservato al limite della timidezza, il discendente della più onorata famiglia filippina ha costruito la sua vittoria sulle proprie debolezze: ha saputo intercettare le aspirazioni e i desideri della grande maggioranza dei suoi compatrioti senza avere avuto il tempo di preparare una precisa strategia elettorale (ha deciso infatti di scendere in campo solo all’indomani della scomparsa della madre); si è potuto proporre come alternativa a un governo screditato e corrotto proprio perché non si è mai molto impegnato in politica (pur sedendo nei seggi del senato) e, infine, non aveva altra legittimazione a governare al di fuori del suo glorioso cognome.
Ed è stato proprio per marcare fortemente la sua appartenenza alla famiglia, che Noynoy si è fatto ritrarre in numerosi manifesti elettorali circondato dalle sue quattro sorelle.
4. Sangue sul voto
Il 10 maggio si sono svolte, con scrutinio separato, anche le elezioni per la nomina del vice presidente (gli aspiranti a questa carica non si presentano necessariamente in abbinamento con i candidati alla presidenza).
È risultato eletto Jejomar Binay, esponente del PDP-Laban (Partido ng Demokratikong Pilipino-Laban), di orientamento populista che ha sconfitto per pochissimi voti il candidato liberale, il senatore Mar Roxas. Binay appartiene allo stesso partito di Joseph Estrada, al quale è legato da affinità politiche e stretta amicizia personale. Sindaco uscente di Makati (una delle 16 località che costituiscono l’agglomerato urbano di Manila) principale centro finanziario del paese (e uno dei più importanti di tutta l’Asia Orientale), Jejomar Binay è il primo uomo politico filippino che sia passato da una carica di carattere amministrativo locale, sia pure di primaria importanza, alla vice presidenza della Repubblica. E proprio in virtù di questa sua esperienza è stato nominato a capo del Comitato per il coordinamento dello sviluppo dell’edilizia urbana, oltre che consulente del presidente per quanto riguarda le questioni relative ai lavoratori filippini all’estero.
Contemporaneamente al voto per le due massime cariche dello stato, hanno avuto luogo anche consultazioni politiche e amministrative in tutte le provincie, le città e le municipalità delle settemila isole che costituiscono l’arcipelago. I candidati alle 17.000 cariche disponibili – tra senatori, deputati, governatori, sindaci (e rispettivi vice), membri dei vari consigli amministrativi – erano oltre 85.000. Si sono verificati anche dei casi in cui per una carica vi era una sola candidatura: poiché il sistema filippino prevede sempre la maggioranza semplice dei voti espressi, per essere eletti era sufficiente anche un solo voto, che poteva essere anche quello del candidato stesso.
Per quanto riguarda il senato, si è trattato di un rinnovo parziale, di mezzo termine. I seggi da rinnovare erano 12, ossia la metà di quelli complessivi: i senatori eletti resteranno in carica fino al 2016, mentre gli altri 12, eletti nel 2007, saranno sostituiti nel 2013.
Dopo il rinnovo parziale dei senatori, grazie a un leggero recupero del Partito Liberale i tre principali partiti sono risultati in parità: il Partito Liberale, la coalizione centrista Lakas-Kampi-CMD (dove il Kampi è formato dal Kabalikat ng Malayang Pilipinoe dal Partito dei Filippini Liberi mentre CMD è l’acronimo di Christian Muslim Democrats), e il PMP (Pwersa ng Masang Pilipino, Forza delle Masse Filippine), populista. L’equilibrio, pertanto, è garantito dai movimenti più piccoli e dagli indipendenti (il 20% dei senatori).
Per quanto riguarda la camera bassa, la maggioranza dei voti è andata alla coalizione Lakas-Kampi-CMD (38,62%), seguita dal Partito Liberale e dai suoi alleati (20,19%) e dalla coalizione guidata dal Partito Nazionalista (11,65%). Il PMP e partiti collegati hanno avuto solo il 2,84% dei suffragi, mentre la rimanenza dei voti è stata suddivisa tra altri 18 partiti e movimenti [W/C].
Le elezioni si sono svolte in un clima di tensione: nelle settimane precedenti il voto vi sono stati circa 40 morti. Queste violenze non sono state tuttavia considerate particolarmente gravi dalle autorità – che hanno anzi definito le elezioni di maggio come le più pacifiche e ordinate che si siano mai svolte nel paese – in quanto è consuetudine che i candidati che se lo possono permettere assoldino una sorta di milizia privata, formalmente adibita alla loro protezione e al servizio d’ordine per i comizi, ma in realtà utilizzata per intimidire gli oppositori e per esercitare pressioni fisiche sugli elettori al momento del voto.
La strage perpetrata nel novembre 2009 a Miguindanao (58 morti), per la quale in febbraio sono state incriminate 197 persone, è stato l’esempio più clamoroso di questo stato di cose, in quanto tra gli assassinati vi erano molti candidati rivali di quelli che facevano riferimento all’ex governatore della provincia, Andal Apatuan senior, ritenuto il mandate della carneficina.
Nonostante la soddisfazione governativa quindi, il problema della regolarità della operazioni di voto non può dirsi risolto nemmeno in questa occasione: in cinque municipalità la commissione elettorale ha dovuto annullare l’esito delle urne perché la popolazione non ha potuto esprimere il proprio voto in piena libertà, a causa delle intimidazioni.
5. La corruzione, prima piaga delle Filippine
La corruzione – che, pur essendo presente in tutta l’Asia, nelle Filippine costituisce un fenomeno diffuso in misura realmente eccezionale, non solo nel settore pubblico, a livello nazionale e locale, ma anche nelle grandi aziende private – è considerata la causa principale della povertà in cui versa larga parte della popolazione. Il costo della corruzione, nelle diverse forme che di volta in volta essa assume, è valutato in una cifra pari a più di tre miliardi di euro. Ed è per questo che la lotta alla corruzione è stata posta al vertice del programma elettorale di Benigno Aquino: «Se non c’è corruzione non c’è povertà» è stato uno degli slogan utilizzati durante la cam- pagna [E 15 maggio, p. 56].
L’accento sulla necessità di porre freno alla corruzione non è certo un dato originale nelle campagne elettorali filippine. Sono stati molti (quasi tutti) i presidenti che si sono proclamati paladini della moralità. Ma i risultati da loro ottenuti – a partire dalla presidenza della madre di Noynoy fino a quella di Gloria Macapagal Arroyo – sono stati tanto scarsi da indurre a sospettare che in molti casi mancasse una reale volontà di debellare questa piaga.
Già nel suo primo discorso ufficiale, tenuto il 30 giugno al momento del giuramento, Noynoy ha additato l’amministrazione uscente come la principale responsabile del dilagare delle corruzione e dei problemi da essa provocati, accusandola di avere provocato un buco finanziario molto difficile da risanare. E a chi gli ha parlato di necessità di una riconciliazione nazionale, ha risposto con toni assai duri che non vi può essere pacificazione senza che prima non sia stata fatta giustizia.
Come primo provvedimento, il nuovo presidente ha annunciato il varo di una speciale commissione contro la corruzione, presieduta da Leila de Lima, una tra le più stimate personalità politiche del paese, che ha assunto anche la carica di segretario del dipartimento della giustizia. Inoltre, Aquino ha promesso il varo in tempi brevi di norme finalizzate a garantire la correttezza dei sistemi per la riscossione delle imposte, la trasparenza della gestione delle finanze pubbliche e la conclusione entro pochi mesi dei principali processi per corruzione in corso.
Infine, il presidente ha rimosso dalle loro cariche tutti i funzionari pubblici non di carriera, per interrompere il perpetuarsi della tradizionale pratica di assegnare incarichi pubblici come forma di ricompensa per servizi e favori.
L’istituzione della commissione contro la corruzione non può non richiamare uno dei primi atti di governo compiuti nel 1986 da Cory Aquino, ossia la creazione di un’altra commissione incaricata di recuperare l’immensa fortuna accumulata dai Marcos (un vero e proprio tesoro). Non si tratta peraltro di un precedente felice, in quanto di quel patrimonio non è stata mai trovata traccia.
L’estirpazione della corruzione, secondo Aquino, darà la possisibilità al governo di operare in modo concreto per il bene del paese, intervenendo sul sistema scolastico, sulle strutture sanitarie e sull’efficienza della giustizia, modernizzando i trasporti e le infrastrutture abitative e favorendo lo sviluppo del turismo attraverso nuovi investimenti.
6. Difficili rapporti tra il governo e la Chiesa
Anche la chiesa filippina (molto influente in un paese in cui i cattolici sono oltre l’80% della popolazione), ha indicato una serie di priorità per il governo, diffondendo un documento in 13 punti che partiva dalla constatazione di come l’amministrazione Arroyo avesse fallito nell’affrontare alcune delicate questioni sociali e auspicando che il nuovo presidente si impegnasse a risolverle. Tra le richieste alle quali i vescovi vincolavano il loro sostegno ad Aquino vi erano la realizzazione della riforma agraria, il rispetto del documento sulla salute sessuale e riproduttiva e la garanzia della sicurezza alimentare nel paese.
Il primo punto era considerato fondamentale, perché su di esso la chiesa filippina, guidata dal cardinale Gaudencio Rosales, intendeva verificare la buona fede del presidente. La riforma, infatti, prevederebbe la redistribuzione delle terre dai latifondisti ai contadini e, pertanto, anche il presidente verrebbe colpito dal provvedimento in quanto appartenente ad una famiglia possidente.
Da quando nelle Filippine è tornata la democrazia, tutti i governi hanno annunciato e timidamente attuato politiche di distribuzione delle terre, ma in realtà sono pochi i contadini ad averne beneficiato, per la resistenza dei grandi proprietari a cedere in tutto o in parte i loro patrimoni.
La stessa riforma agraria promessa negli anni Ottanta da Corazon Aquino, pur avendo assegnato ai piccoli proprietari circa quattro milioni di ettari di terre di proprietà privata e altri tre milioni di ettari di proprietà pubblica (permettendo ai contadini di acquistare appezzamenti fino a tre ettari di terra grazie ai prestiti concessi dalle banche e ottenuti con l’appoggio del governo), non ha cambiato la situazione reale. E non furono in pochi, all’epoca, a notare come il fatto che il patrimonio terriero della famiglia Aquino era rimasto integro fosse la testimonianza lampante del fallimento della politica agraria della presidentessa.
D’altra parte, il maggiore ostacolo a qualunque innovazione nel settore agricolo è da ricercarsi proprio in una struttura sociale che, al proprio vertice, è controllata da circa 130 famiglie che si dividono il potere politico e la ricchezza: sia Aquino, che la Arroyo (a sua volta figlia di un ex presidente) che i Marcos fanno parte di questo sistema, che ha portato al formarsi, nel paese, di una vera e propria oligarchia se non addirittura di una plutocrazia resistente a ogni cambiamento che ne limiti o pregiudichi il potere.
Noynoy, peraltro, ha subito ribadito di condividere la necessità di una riforma agraria perché le aree rurali coincidono con quelle in cui maggiore è la povertà. È stato quindi fissato un piano di rapida attuazione per la ristrutturazione e la modernizzazione del sistema agricolo attraverso programmi di sostegno diretto agli agricoltori. Per quanto riguarda i propri possedimenti, Aquino si è dichiarato pronto a cederli, una volta che siano stati liberati da debiti e ipoteche.
Nei mesi successivi, il rapporto con la chiesa è stato reso più difficile a causa delle posizioni assunte da Aquino in tema di controllo delle nascite. Il presidente si è dichiarato favorevole alla diffusione della contraccezione soprattutto tra le fasce più povere della popolazione e questo non ha mancato di creare forti resistenze tra le alte sfere religiose. In effetti, la mossa di Aquino potrebbe apparire azzardata: nessun governo di Manila ha mai osato contrapporsi alle gerarchie ecclesiastiche. Tutti inoltre ricordano il ruolo decisivo che la chiesa ebbe per favorire il ritorno alla democrazia: la dittatura di Marcos cadde infatti proprio grazie a una campagna di disobbedienza civile voluta dall’allora capo della chiesa filippina, cardinale Jaime Sin (morto nel 2005).
In ottobre, la tensione tra i due poteri, civile e religioso, ha raggiunto l’apice. Il vescovo Nereo Odchimar, presidente della conferenza dei vescovi filippini, ha infatti preso decisamente posizione contro la politica di pianificazione familiare del governo e i suoi programmi che prevedono la contraccezione e l’aborto. Odchimar ha espresso grande preoccupazione e ha avvertito Aquino che avrebbe potuto trovarsi di fronte a un’azione disciplinare da parte della chiesa. Pur sottolineando che la gerarchia ecclesiastica non desidera lo scontro, non è stata esclusa la possibilità che si arrivi addirittura alla scomunica del presidente.
Aquino però ha fatto capire di non voler fare passi indietro su questo argomento e di volersi affidare alla libertà di coscienza dei cittadini. In realtà, la sensazione è che Noynoy stia cercando di mantenere alta la tensione su questo punto (ha fatto ripetutamente in modo da non aprire un tavolo negoziale con la chiesa) per ragioni legate alla sua identità politica. Aquino, infatti, ha forte necessità di caratterizzare la propria presidenza, valorizzando i primi mesi di mandato, quelli del cosiddetto stato di grazia, in cui tutto è concesso ai neo eletti. E il tema del controllo delle nascite sembra essere uno dei più propizi: il paese sa che un incremento demografico fuori controllo è una delle principali cause della povertà e, secondo i sondaggi, due terzi dei filippini sono favorevoli all’adozione di moderni metodi di pianificazione familiare, anche contro il parere dei religiosi [E 16 ottobre 2010, p. 56].
7. La lotta alla povertà
Per quanto riguarda la lotta alla povertà, le Filippine, con 30 milioni di persone che vivono al di sotto della soglia di indigenza, sono rimaste ai margini del processo di sviluppo ed espansione economica che, nonostante la crisi mondiale, ha caratterizzato i paesi vicini e i suoi partner commerciali naturali: i paesi dell’ASEAN (l’associazione degli stati del Sud-est asiatico, le cui economie fanno registrare tassi di sviluppo, a parte il Brunei, molto più alti), la Cina e la Corea del sud.
Invece a Manila, dopo un decennio in cui la crescita media era stata del 4,5%, nel 2009 l’indice si è fermato al di sotto dell’1%, così come sembra destinato a fare nel 2010, nonostante una certa ripresa nella seconda metà dell’anno: +1,5% nel secondo semestre, contro lo 0,6% dei primi sei mesi [W/BBW 4 maggio 2010, «Philippines Plans Smaller Budget Deficit in 2011»].
Recenti statistiche fissano il tasso di disoccupazione al 7,3%, a cui si aggiunge un altro 19,7% di sottoccupati [LRAF, 1° luglio, p. 23]. Proprio su questo punto il neo presidente ha molto insistito in campagna elettorale, sottolineando come occorra offrire concrete opportunità di sostentamento alle fasce più povere della popolazione. Sono proprio questi strati sociali che, per la mancanza di possibilità in patria, alimentano un flusso emigratorio che ha visto già 10 milioni di filippini espatriare per cercare lavoro all’estero, privando il paese delle sue migliori energie.
Pur riconoscendo i vantaggi economici derivanti dalle rimesse dei lavoratori emigranti (oltre un decimo del PIL), Benigno Aquino ha evidenziato in campagna elettorale i problemi sociali correlati ad un esodo tanto massiccio, come quello della disgregazione dei nuclei familiari e le condizioni di lavoro alle quali sono sottoposti i lavoratori filippini all’estero. È importante quindi arrivare a un punto di equilibrio nella gestione della cosiddetta diaspora, facendo sì che chi si reca a lavorare all’estero lo faccia per scelta e non solo e sempre per necessità.
Il governo di Aquino ha fondato le proprie aspettative di recupero economico sulla ripresa delle esportazioni, con particolare riguardo a quelle del settore elettronico, che conta per oltre la metà dell’export totale. L’incremento delle esportazioni per il 2010 è del 7% (dopo la flessione del 14% del 2009). A indurre alla moderazione delle aspettative è l’aumento dei prezzi delle materie prime sui mercati internazionali, che porterà a una crescita del valore importazioni pari al 15%, influendo non poco sulla bilancia commerciale [LRAF 1° luglio, p. 23].
8. L’annosa questione musulmana
Insieme alla lotta alla corruzione e alla povertà, nell’agenda di Aquino domina un altro importante problema: quello della pacificazione del Sud del paese, la parte più povera delle Filippine, abitata da una popolazione in maggioranza musulmana.
Per di più, avendo posto questo tema tra le priorità del programma elettorale, Aquino ha suscitato molte aspettative tra la popolazione locale, che gli hanno procurato notevoli consensi in occasione delle elezioni del 10 maggio, rendendo ancora maggiore l’attesa per le mosse del governo su questo scacchiere.
Tra la parte meridionale dell’arcipelago e le regioni del Centro-Nord, le differenze religiose vanno di pari passo con una forte disparità economica e sociale; la popolazione del Sud accusa i governi di Manila di non avere mai fatto abbastanza per favorire l’integrazione e migliorare le sue condizioni di vita. Numerosi gli indicatori che confermano questo stato di cose. Tra la popolazione del Sud, ad esempio, il numero di coloro i quali vivono sotto la soglia di povertà è doppio rispetto al resto del paese mentre la speranza di vita è infe- riore di nove anni [LM 20 maggio].
Aquino deve quindi prendere rapidamente provvedimenti che gli permettano di tamponare la situazione, guadagnando così il tempo necessario ad apportare riforme sostanziali. L’urgenza di tali mosse è acuita dal fatto che il forte malcontento delle minoranze musulmane è terreno fertile per una endemica guerriglia in cui alla componente confessionale si unisce una valenza di carattere politico-sociale, che porta gruppi ribelli comunisti ad affiancarsi a quelli di orientamento religioso.
Tra le diverse organizzazioni separatiste, il MILF (Moro Islamic Liberation Front) è quella attualmente più potente, in grado di imporre le proprie regole anche alle forze governative, che in certe zone non possono entrare o spostarsi senza l’autorizzazione dei guerriglieri. A differenza degli elettori, i dirigenti del MILF hanno accolto con diffidenza l’elezione di Aquino, dichiarando che i margini per una trattativa sono molto ristretti.
Dagli anni Ottanta a oggi, il conflitto tra i guerriglieri e l’esercito regolare ha provocato oltre 120.000 morti [LM 20 maggio 2010, p. 35]. A dispetto della conclamata volontà di ricercare un accordo politico, gli scontri hanno sempre accompagnato lo sviluppo dei negoziati.
Particolarmente cruenti sono stati i combattimenti del 2008. La presidentessa Arroyo e i dirigenti del MILF avevano infatti raggiunto un accordo che riconosceva ai moro lo status di nazione e dava vita a un’entità giuridica specifica per le zone popolate in maggioranza da musulmani. La corte suprema di Manila tuttavia non aveva ratificato l’accordo e questo pronunciamento aveva provocato lo scoppio di una cruenta rivolta che, in un anno, ha costretto oltre 400.000 persone ad abbandonare le proprie case e le proprie terre ed è terminata con il cessate-il-fuoco del settembre 2009.
Le radici del problema sono antichissime: il Sud delle Filippine, e in particolare l’isola di Mindanao, era islamizzato da molto tempo prima dell’arrivo degli spagnoli, nel 1527. La colonizzazione spagnola, seguita da quella statunitense (e dall’occupazione giapponese durante la seconda guerra mondiale) ha fatto ritirare i musulmani sempre più a sud. Si tratta di una politica che è stata perseguita dai governi delle Filippine indipendenti e che ha fatto sì che oggi anche Mindanao sia a maggioranza cristiana, salvo tre provincie su 21.
I musulmani filippini praticano un mite islàm di orientamento sufi (diffuso anche nella vicina Indonesia), integrato con le culture locali. Particolare il ruolo centrale attribuito alla donna, che consente alla maggior parte delle musulmane filippine di lavorare.
Nell’avviare nuovi negoziati, sia Benigno Aquino che il MILF sono consapevoli che né la repressione militare né la guerriglia porteranno mai a una soluzione del problema. Se da un lato quindi l’obiettivo del Fronte Moro sembra essere diventato non più l’indipendenza ma la creazione di un’entità simile a quella degli stati USA – che delegano al governo centrale la politica estera, la difesa nazionale, la politica finanziaria e monetaria e i servizi generali (poste etc) – d’altro canto Aquino deve cercare di vincere le resistenze di chi, a Manila, non è intenzionato a nessuna concessione.
9. La politica estera
La politica estera potrebbe rivelarsi un tallone d’Achille per Benigno Aquino per un motivo apparentemente futile e di carattere personale. Il presidente filippino infatti non ama volare e nei primi mesi di mandato ha fatto disdire numerosi impegni internazionali proprio per non dover prendere l’aereo. Si tratta di un limite grave, nell’epoca della globalizzazione e dell’avvento sempre più prepotente dell’Asia sulla scena economica mondiale.
La collocazione geografica delle Filippine è molto importante negli equilibri geopolitici mondiali, soprattutto per quanto riguarda i rapporti con il più potente dei suoi vicini: la Cina.
Le Filippine hanno siglato con Pechino un accordo di cooperazione riguardante vari settori: turismo, energia, pesca, commercio e investimenti. Una delle priorità di questo accordo è quella di voler trasformare il Mare della Cina del Sud da area di conflitto a zona di cooperazione, nel contesto delle relazioni bilaterali e multilaterali; per questo i due paesi hanno firmato un accordo sull’esplorazione marina per la ricerca del petrolio e sulla regolamentazione per la pesca nella zona, dicendosi pronti a metter fine alla disputa sulle isole Spratly, oggetto di un antico contenzioso.
Riferimenti bibliogrfici
E «The Economist»
LM «Le Monde»
LRAF «La Repubblica Affari e Finanza»
W/AT «Asian Times» (http://www.asianews.it/notizie-it/Elezioni:-Aquino-si-appresta-a-essere-il-nuovo-presidente-delle-Filippine-18382.html).
W/BBW «Bloomberg businessweek» (http://www.businessweek.com/news/2010-05-04/philippines-plans-smaller-budget-deficit-in-2011-update1-.html).
W/C «Commission on Elections» (http://www.comelec.gov.ph/results/20results/2010natl_local/toc.html).
W/CSM «TheChristianScienceMonitor»(http://www.csmonitor.com/World/Asia-Pacific/2010/0630/Benigno-Aquino-inaugurated-as- Philippines-president).